1 2014 09 19 Shale gas, il miraggio sta già svanendo
I blog de IlFattoQuotidiano.it Fabio Scacciavillani Chief
Economist Fondo d'investimenti dell'Oman
Shale gas, il miraggio sta già svanendo di Fabio Scacciavillani
| 25 settembre 2014
Il successo dell’estrazione di petrolio e gas da giacimenti non
convenzionali, in particolare le formazioni di scisti (in inglese shale), è uno
dei rari raggi di luce negli anni bui di Grande Recessione. L’impatto è stato
impressionante. Da quattro anni gli Usa
sono il maggior produttore di gas al mondo e da inizio 2014, con
l’equivalente di 11 milioni di barili di
petrolio al giorno, sono in testa alla produzione globale di idrocarburi.
Il prezzo del gas naturale negli Usa, che a giugno del 2008 aveva superato i 12
dollari per milione di Btu (British thermal units, l’unità di misura più
diffusa per il prezzo del gas), piombò a meno di 3 dollari a settembre 2009 e
poi fino a un minimo di 2 dollari nell’aprile del 2012. Oggi il prezzo si
aggira intorno ai 4 dollari per mBtu. Gli
Usa un tempo rassegnati a massicce importazioni di gas liquefatto dal Qatar
ora pianificano di esportare verso
l’Europa (dove il gas vale 10 dollari per mBtu) e il ricco mercato asiatico (in Giappone il prezzo è circa
15 dollari) e addirittura verso il Medio Oriente.
In taluni settori manifatturieri, inclusi quelli che avevano
trasferito le fabbriche in Asia o Messico, ora i costi energetici contenuti (e
l’inflazione salariale nei Paesi emergenti) rendono gli Stati Uniti una localizzazione competitiva. L’ottimismo generato da
questa manna energetica ha indotto a prevedere che gli Usa possano raggiungere
l’autosufficienza energetica nel 2020. Tale epocale inversione non ha
sconquassato solo l’economia, ma ha anche accentuato l’istinto isolazionista
dell’America profonda e di Barack Obama. Il presidente infatti ha trascurato
Libia, Siria, Iraq e teatri di guerra che un tempo avrebbero acceso l’allarme
rosso alla Casa Bianca e si è ridestato lentamente dal torpore geopolitico solo
di fronte agli sgozzamenti. Sull’approvvigionamento energetico classe politica,
Pentagono, società petrolifere e Wall Street (che ha riversato cascate di
dollari su progetti targati shale) dopo decenni di patemi e tensioni sono
convinti di potersi rilassare.
Tuttavia da questo altare di certezze si odono mandibole di
tarli in piena attività: i successi iniziali sono stati inopinatamente proiettati
nel futuro per attirare capitali e gonfiare
l’ennesima bolla. Una serie di studi del Bureau of Economic Geology (BEG)
all’Università del Texas – una tra le più autorevoli think tank in campo
energetico – ha rielaborato le previsioni iniziali sulla produzione di shale
gas alla luce dei dati fin qui rilevati nei maggiori giacimenti. Tali studi
condotti da geologi, economisti e ingegneri forniscono un’analisi, disaggregata
per singolo pozzo, fino al 2030 sulla base di diversi scenari di prezzo (che determinano
la convenienza economica dell’estrazione). Emerge che, in contrasto con le
iniziali proiezioni, la produzione nel
bacino texano di Barnett (il più vecchio) segue un declino esponenziale: la
produzione raggiunge un picco nei primi mesi di attività, per poi crollare,
invece di stabilizzarsi.
Per compensare il rapido declino dei primi pozzi (più
promettenti e meno costosi) si deve trivellare più intensamente e con
tecnologie più sofisticate e i costi si impennano. Piani di investimento e
aspettative di profitti rischiano di trasformarsi in perdite per azionisti e
finanziatori incauti.
Da altri grandi giacimenti di shale gas sfruttati da minor
tempo, come Haynesville e Marcellus, si temono analoghi dispiaceri. Oltre al gas, anche i dati dai pozzi di petrolio
da scisti di Eagle Ford in Texas, elaborati da Arthur Berman indicano un
preoccupante declino. La Shell ha
iscritto a bilancio perdite per 2, 1
miliardi di dollari dall’investimento in Eagle Ford. Un altro colosso
mondiale delle materie prime, BHP Hilton,
che aveva scommesso 20 miliardi di dollari sugli idrocarburi da scisti ha
annunciato di voler vendere metà dei suoi bacini. Una doccia gelida è anche arrivata dall’Energy Information
Administration (EIA) del governo Usa che ha tagliato del 96 per cento (da
13, 7 miliardi di barili ad appena 600 milioni) le stime di petrolio estraibili
dal bacino Monterey lungo circa 2500 chilometri in California e considerato
(ormai erroneamente) il più grande degli States con due terzi delle riserve
petrolifere non convenzionali. Insieme alle stime sono evaporati 2,8 milioni di posti di lavoro attesi entro il 2020, oltre a 24, 6 miliardi di dollari introiti
fiscali e un 14 per cento di aumento del Pil californiano.
L’epopea dei combustibili fossili oscilla da due secoli tra
presagi di esaurimento imminente ed esaltazione da scoperte di giacimenti
giganteschi. Lo shale gas ha alimentato aspettative mirabolanti probabilmente
destinate ad ridimensionarsi. Il miraggio dello shale aveva colpito dalla
Polonia al Regno Unito, dall’Argentina alla Cina. Ma al di fuori del Nord
America al momento non si registrano successi di rilievo. In Polonia si sono
accumulate perdite e dispute tra governo società petrolifere, mentre
Oltremanica il governo sembra scettico. In Italia
– dove comunque non si segnalano sostanziali giacimenti non convenzionali e la Strategia Energetica Nazionale esclude
espressamente estrazioni da scisti – la Commissione Ambiente della Camera ha
approvato da pochi giorni un emendamento che proibisce il fracking, cioè la tecnologia per estrarre lo shale gas.
Il Fatto Quotidiano, 17 settembre 2014
2 22/09/2014 Capital Economics: "Italia verso il default, esca subito dall'Euro"
Da mesi il quotidiano inglese 'The Telegraph' spinge sul tasto della prossima fine dell'Euro, o
dell'uscita dalla moneta unica come ultima spiaggia per i Paesi della periferia
continentale schiacciati dalla crisi dei debiti sovrani.
L'ultimo affondo sulle colonne del Telegraph è a firma di Roger
Bootle, amministratore delegato di Capital
Economics e vincitore del Premio
Wolfson economics del 2012. Secondo Bootle l'Italia corre verso un default
inevitabile sul debito pubblico, e solo l'abbandono della moneta unica può
evitarlo.
IL CONFRONTO CON IL REGNO UNITO - Bootle ricorda i fasti dell’economia italiana allorchè negli anni Settanta superò per pil l’economia del Regno Unito, un evento definito dalla stampa “il sorpasso”. Sebbene quel benessere fu perseguito con alti tassi d’inflazione e nonostante una politica caotica. La situazione fu però ribaltata nel 1995, quando il Regno Unito tornò a superare l’Italia. Da allora, spiega, il divario tra le due economie si è ampliato in favore di Londra. D’altronde, dal 1999 ad oggi, ossia da quando l’Italia ha adottato l’euro, il suo pil è cresciuto mediamente dello 0,3% all’anno, ossia è rimasto fermo. Oggi, è del 9% al di sotto del picco raggiunto nel 2007, unico paese del G7 insieme al Giappone a non avere superato ancora la crisi finanziaria esplosa nel 2008.
IL CONFRONTO CON IL REGNO UNITO - Bootle ricorda i fasti dell’economia italiana allorchè negli anni Settanta superò per pil l’economia del Regno Unito, un evento definito dalla stampa “il sorpasso”. Sebbene quel benessere fu perseguito con alti tassi d’inflazione e nonostante una politica caotica. La situazione fu però ribaltata nel 1995, quando il Regno Unito tornò a superare l’Italia. Da allora, spiega, il divario tra le due economie si è ampliato in favore di Londra. D’altronde, dal 1999 ad oggi, ossia da quando l’Italia ha adottato l’euro, il suo pil è cresciuto mediamente dello 0,3% all’anno, ossia è rimasto fermo. Oggi, è del 9% al di sotto del picco raggiunto nel 2007, unico paese del G7 insieme al Giappone a non avere superato ancora la crisi finanziaria esplosa nel 2008.
DEBITO PUBBLICO E MONETA UNICA - Le ragioni di
questo disastro non stanno solamente nell’euro. "L’Italia - spiega Bootle
- non ha fatto le riforme per rilanciare la sua competitività e ha subito più
delle altre economie la concorrenza dei mercati emergenti. A differenza della
Germania, infatti, produce essenzialmente beni di largo consumo a basso
contenuto di tecnologia. Tuttavia, la moneta unica ha la responsabilità di aver
impedito un riequilibrio, in quanto non ha permesso le variazioni del cambio
necessarie per giungere agli aggiustamenti con gli altri paesi". Il
manager sottolinea inoltre che l’Italia non ha tanto un problema di deficit,
pari al 3% del pil, ma di debito pubblico, oltre il 130% del pil. Nonostante
ciò, paga i rendimenti a 10 anni sui suoi bond sovrani solamente al 2,4%. La
classica situazione, aggiunge, di "quiete prima della tempesta".
LA TRAPPOLA DEL DEBITO - Secondo Bootle, dunque, l’Italia si
troverebbe in una vera e propria “trappola del debito”. Non cresce e ciò fa
lievitare di continuo il rapporto tra debito e pil. Ma per crescere non sarà
sufficiente il solo varo delle riforme tanto attese e mai attuate; finchè il
Belpaese rimarrà nella moneta unica, non potrà riprendersi del tutto. E se è
vero che è poco esposto verso l’estero (le passività
finanziarie sono più alte delle attività verso l’estero del 30% del pil), ciò non esclude che gli elevati risparmi
italiani smettano a un certo punto di finanziare la montagna del debito, quando
ci sarà la percezione diffusa che prima o poi possa scattare il default.
Bootle sottolinea inoltre come una ristrutturazione del debito pubblico italiano avrebbe conseguenze
molto gravi sul sistema finanziario globale, dato che abbiamo il terzo più
grande mercato di bond al mondo dopo USA e Giappone, generando una grave crisi bancaria visto che gli istituti sono
colmi del nostro debito sovrano. E non ci sarebbe dunque alcuna vera
alternativa all’uscita dell’Italia dall’euro. Si chiede Bootle: quanto altro
tempo ancora dovrà essere sprecato prima che i politici italiani si rendano
conto che bisogna rinunciare alla moneta unica?
3 2014 09 23 La Germania si sta sbriciolando, altro che "modello"
Der Spiegel: un paese che non ha fatto investimenti, non
sta crescendo, e dove il livello di benessere sta scendendo per la maggior
parte dei cittadini.
di WSI
Pubblicato il 23
settembre 2014| Ora 14:37 Commentato: 32 volte
FRANCOFORTE (WSI) - A dispetto della sua luccicante facciata, l'economia
tedesca si sta sbriciolando al proprio interno. Così, quantomeno, la pensa
Marcel Fratzscher. Con le infrastrutture del paese che diventano obsolete e le
aziende che preferiscono investire all'estero, il consulente del governo
sostiene che la prosperità della Germania sta vacillando.
Quando Fratzscher, capo del German Institute for Economic Research, tiene una conferenza, gli piace porre una domanda al pubblico: "Di che paese stiamo parlando?" Dopodiché inizia a descrivere un paese che ha avuto meno crescita rispetto alla media dei paesi dell'eurozona fin dall'inizio del nuovo millennio, dove la produttività è cresciuta solo di poco, e dove due lavoratori su tre guadagnano oggi meno di quanto guadagnavano nel 2000.
Di solito Fratzscher non deve attendere molto prima che le persone inizino ad alzare la mano. "Portogallo" afferma qualcuno. "Italia" dice un altro. "Francia" esclama un terzo. L'economista lascia che il pubblico continui a cercare la risposta giusta finché, con sorriso trionfante, annuncia la risposta. Il paese che stiamo cercando, quello con dei risultati economici così deboli, è la Germania.
Forse ci vuole qualcuno che abbia la preparazione di Fratzscher per essere così aspramente critico verso il proprio paese. L'economista di Bonn ha lavorato come consigliere del governo a Jakarta nella metà degli anni '90, durante la crisi finanziaria asiatica. Ha condotto ricerche presso il rinomato Peterson Institute a Washington quando esplose la bolla di internet, e ha scritto analisi per la Banca Centrale Europea nel periodo più cupo della crisi dell'euro. Ha sempre osservato gli sviluppi della Germania "con un certo distacco", dice lui stesso.
Fratzscher guida il German Institute for Economic Research (DIW) da oltre un anno, ed è evidente che questa ritrovata vicinanza gli ha aguzzato la vista sulle contraddizioni della quarta maggiore potenza economica del mondo. L'industria tedesca vende automobili di alta qualità e macchinari in tutto il mondo, ma quando l'intonaco comincia a scrostarsi dai muri di una scuola elementare sono i genitori a dover raccogliere il denaro per pagare l'imbianchino.
Le aziende e le famiglie posseggono attività e beni per migliaia di miliardi, ma metà dei ponti autostradali hanno urgente bisogno di riparazioni. La Germania ottiene più benefici dall'Europa rispetto alla maggior parte degli altri paesi, eppure i suoi cittadini hanno l'impressione che Bruxelles si approfitti di loro.
La Grande Illusione
Fratzscher la chiama "Die Deutschland Illusion" ("L'Illusione Tedesca"), che è il titolo del suo nuovo libro che sarà presentato venerdì dal ministro tedesco all'economia, Sigmar Gabriel. Lo scorso anno Fratzscher ha chiesto al suo staff del DIW, uno dei più importanti think tank del paese, di occuparsi delle fondamenta dell'economia tedesca. Fratzscher ha condensato i risultati in un crudo resoconto sulle grandi illusioni dell'economia del paese.
I tedeschi vedono il proprio paese come un motore di occupazione e un modello per le riforme per tutta l'Europa, dice Fratzscher, e tuttavia la Germania si è a malapena risollevata dalla recessione causata dalla crisi finanziaria. La Germania secondo Fratzscher sembra un gigante quando è vista da lontano, ma diventa sempre più piccola quanto più ci si avvicina. Il paese sta percorrendo "un sentiero in discesa", scrive il presidente del DIW, e sta vivendo "delle proprie riserve".
Gli stessi buoni dati sul mercato del lavoro nascondono in realtà la più pericolosa debolezza della Germania. Difficilmente un qualsiasi altro paese industrializzato potrebbe essere così negligente e avaro rispetto al proprio futuro. Mentre all'inizio degli anni '90 il governo e l'economia investivano il 25 percento del prodotto totale per costruire nuove strade, linee telefoniche, edifici universitari e fabbriche, nel 2013 questo numero è sceso ad appena il 19,7%, (Italia 18% - 50% costruzioni) secondo i recenti dati forniti dall'Ufficio Statistico Federale.
Questa non è una banalità statistica. Il futuro del paese e la vita quotidiana dei suoi cittadini dipendono da come ciascun euro viene usato oggi. Se un euro viene speso subito non sarà utile per il futuro. Può anche essere risparmiato per dei consumi futuri. O può essere investito in aziende, istruzione o infrastrutture, in modo da diventare la base per la prosperità futura, il progresso tecnico e altri posti di lavoro.
Il problema della Germania è che il denaro viene ora utilizzato essenzialmente per i primi due scopi. Secondo i calcoli del DIW, la caduta degli investimenti tra il 1999 e il 2012 ammonta a circa il 3% del PIL, ed è il più grande "divario degli investimenti" di tutta l'Europa. Se uno guarda solo agli anni tra il 2010 e il 2012 il divario è del 3,7%, ancora più grande. Solo per mantenere un livello accettabile di crescita, il governo e le imprese dovrebbero spendere 103 miliardi di euro in più ogni anno rispetto a quanto stanno facendo oggi.
Preoccupazioni crescenti
Questo è il punto chiave della diagnosi di Fratzscher — e adesso l'onere di trovare la terapia ricade su di lui. Da quando il ministro all'economia Gabriel lo ha nominato commissario agli investimenti alla fine dello scorso mese, si è trovato al centro del dibatto sulla riforma della spesa, dibattito potenzialmente tanto importante quanto lo fu quello sull'Agenda 2010 di riforme del mercato del lavoro e del sistema di welfare.
La recente flessione dell'economia rende il problema ancora più urgente. Ora che l'industria ha visto un declino nel volume degli ordini e ha ridimensionato la produzione, il governo deve decidere se contrastare tale declino con un programma di investimenti.
Ciò che recentemente non era altro che una possibilità teorica potrebbe presto diventare un punto critico fondamentale per la coalizione di governo della cancelliera Angela Merkel. Mentre la Merkel e il ministro delle finanze Wolfgang Schäuble restano determinati nell'aderire al proprio progetto di presentare un bilancio federale in pareggio per il prossimo anno, Fratzschern sostiene che bisogna prepararsi per lo scenario peggiore. "Se la crisi si aggrava ancora," ha detto in una conversazione con lo SPIEGEL, "sarà necessaria una maggiore spesa per stimolare l'economia".
Se ciò avverrà, il libro di Fratzscher potrebbe offrire un modello su come procedere. Nel suo studio, il presidente del DIW elenca meticolosamente i maggiori problemi di investimento per la Germania, dalle aziende alle reti di trasporti, dall'istruzione al piano di transizione energetica — il passaggio del governo federale dall'energia nucleare verso l'energia rinnovabile. Dati a sostegno delle sue teorie vengono da ogni angolo del paese.
Svanisce la lealtà verso la Germania
Rainer Hundsdörfer sta per compiere quella che è forse la decisione più difficile della sua vita professionale. La sua azienda ha in programma di investire 50 milioni di euro a breve, ma egli è incerto se valga ancora la pena di spendere questi soldi nella propria patria.
Hundsdörfer è l'amministratore delegato dell'impresa Ebm-Pabst. I ventilatori industriali prodotti dalla sua azienda a Mulfingen, una città nel sud della Germania, sono installati nei sistemi di refrigerazione dei supermercati, nei condizionatori d'aria degli alberghi e nei server informatici di tutto il mondo. I mercati esteri contano già per oltre il 70 percento delle vendite della sua azienda.
Ebm-Pabst fabbrica già da tempo alcuni dei suoi prodotti in India e in Cina, ma fino ad ora il suo obiettivo quando investiva in paesi stranieri era semplicemente quello di trovarsi più vicino ai suoi clienti. L'azienda era rimasta fieramente leale alla Franconia, la sua regione d'origine in Germania. Ma questa lealtà potrebbe svanire alla prossima decisione sugli investimenti. "Sarebbe la prima volta che scegliamo contro il sito di produzione in Germania," dice Hundsdörfer.
L'azienda vuole espandere l'impianto di Mulfingen e costruire un nuovo centro logistico. Questo creerebbe centinaia di posti di lavoro, ma ciò che manca è "un'infrastruttura stradale decente per rendere proficuo il nostro investimento," dice Hundsdörfer. I suoi camion sono costretti a usare la Hollenbacher Steige, una strada che si sta sbriciolando e che ha urgente necessità di essere riasfaltata. Spesso i camion che arrivano dalla direzione opposta non riescono a passare trovandosi uno di fronte all'altro su una strada così stretta.
Il progetto di costruzione stradale costerebbe 3,48 milioni di euro, ma lo Stato e il governo locale esitano da anni a mandare avanti la cosa, per via dei costi. Secondo Hundsdörfer i conti semplicemente non tornano. "Paghiamo più tasse noi in un solo anno di quello che costerebbe rifare la strada." Ora Hundsdörfer sta prendendo in considerazione l'impensabile: perché non costruire il centro logistico all'estero. Hundsdörfer non si troverebbe da solo, nel fare questa scelta.
La diminuzione degli investimenti industriali
L'economia tedesca evita da anni gli investimenti. Le aziende hanno quasi 500 miliardi di euro messi da parte in risparmi, secondo le stime del presidente del DIW, e tuttavia la proporzione di investimenti nell'economia privata della Germania è caduta da poco meno del 21 percento nel 2000 a poco più del 17 percento nel 2013.
Molti economisti concludono che le aziende sono preoccupate non solo per le strade che si sbriciolano, ma anche per la mancanza di lavoratori qualificati, le condizioni dell'eurozona, e i crescenti costi dell'energia. E questa paura, a sua volta, sta ostacolando i progetti per il futuro della Germania.
Le conseguenze sono drammatiche. Quando si calcola l'aggiustamento per l'inflazione, si trova che molte aziende hanno effettivamente ridotto le loro spese per macchinari e computer nel corso degli ultimi decenni, secondo i dati dell'Ufficio Statistico Federale. Questo è vero specialmente per l'industria chimica, ma anche le infrastrutture industriali stanno crollando, per esempio, nei settori dell'ingegneria meccanica e dell'elettronica.
Ma le aziende non hanno smesso del tutto di investire — semplicemente non stanno più investendo in Germania. La BMW, casa automobilistica bavarese, sta attualmente spendendo un miliardo di dollari per trasformare il suo impianto a Spartanburg, nella Carolina del Sud, nel suo più grande stabilimento a livello globale. La Daimler ora assembla la nuova classe C per il mercato americano nella città di Tuscaloosa, in Alabama. Dürr, il produttore di attrezzature per la verniciatura, ha ampliato i suoi edifici industriali a Shangai lo scorso anno, in modo che essi ora hanno raggiunto le stesse dimensioni di quelli della sua sede centrale a Bietigheim-Bissingen, vicino a Stoccarda.
Da quando il boom del fracking ha ridotto i costi dell'energia, gli Stati Uniti sono diventati in modo particolare il sito preferito per le aziende tedesche. In maggio, BASF CEO Kurt Bock ha annunciato un nuovo piano di investimenti da un miliardo di euro, il più grande nella storia dell'azienda, nella Costa del Golfo americano. Nello spiegare la decisione, la dirigenza ha fatto notare che il gas naturale negli Stati Uniti costa solo un terzo di ciò che costa in Germania. Il gigante tecnologico Siemens è andato anche oltre, annunciando che in futuro gestirà il suo intero business dagli uffici negli Stati Uniti.
Quando Fratzscher, capo del German Institute for Economic Research, tiene una conferenza, gli piace porre una domanda al pubblico: "Di che paese stiamo parlando?" Dopodiché inizia a descrivere un paese che ha avuto meno crescita rispetto alla media dei paesi dell'eurozona fin dall'inizio del nuovo millennio, dove la produttività è cresciuta solo di poco, e dove due lavoratori su tre guadagnano oggi meno di quanto guadagnavano nel 2000.
Di solito Fratzscher non deve attendere molto prima che le persone inizino ad alzare la mano. "Portogallo" afferma qualcuno. "Italia" dice un altro. "Francia" esclama un terzo. L'economista lascia che il pubblico continui a cercare la risposta giusta finché, con sorriso trionfante, annuncia la risposta. Il paese che stiamo cercando, quello con dei risultati economici così deboli, è la Germania.
Forse ci vuole qualcuno che abbia la preparazione di Fratzscher per essere così aspramente critico verso il proprio paese. L'economista di Bonn ha lavorato come consigliere del governo a Jakarta nella metà degli anni '90, durante la crisi finanziaria asiatica. Ha condotto ricerche presso il rinomato Peterson Institute a Washington quando esplose la bolla di internet, e ha scritto analisi per la Banca Centrale Europea nel periodo più cupo della crisi dell'euro. Ha sempre osservato gli sviluppi della Germania "con un certo distacco", dice lui stesso.
Fratzscher guida il German Institute for Economic Research (DIW) da oltre un anno, ed è evidente che questa ritrovata vicinanza gli ha aguzzato la vista sulle contraddizioni della quarta maggiore potenza economica del mondo. L'industria tedesca vende automobili di alta qualità e macchinari in tutto il mondo, ma quando l'intonaco comincia a scrostarsi dai muri di una scuola elementare sono i genitori a dover raccogliere il denaro per pagare l'imbianchino.
Le aziende e le famiglie posseggono attività e beni per migliaia di miliardi, ma metà dei ponti autostradali hanno urgente bisogno di riparazioni. La Germania ottiene più benefici dall'Europa rispetto alla maggior parte degli altri paesi, eppure i suoi cittadini hanno l'impressione che Bruxelles si approfitti di loro.
La Grande Illusione
Fratzscher la chiama "Die Deutschland Illusion" ("L'Illusione Tedesca"), che è il titolo del suo nuovo libro che sarà presentato venerdì dal ministro tedesco all'economia, Sigmar Gabriel. Lo scorso anno Fratzscher ha chiesto al suo staff del DIW, uno dei più importanti think tank del paese, di occuparsi delle fondamenta dell'economia tedesca. Fratzscher ha condensato i risultati in un crudo resoconto sulle grandi illusioni dell'economia del paese.
I tedeschi vedono il proprio paese come un motore di occupazione e un modello per le riforme per tutta l'Europa, dice Fratzscher, e tuttavia la Germania si è a malapena risollevata dalla recessione causata dalla crisi finanziaria. La Germania secondo Fratzscher sembra un gigante quando è vista da lontano, ma diventa sempre più piccola quanto più ci si avvicina. Il paese sta percorrendo "un sentiero in discesa", scrive il presidente del DIW, e sta vivendo "delle proprie riserve".
Gli stessi buoni dati sul mercato del lavoro nascondono in realtà la più pericolosa debolezza della Germania. Difficilmente un qualsiasi altro paese industrializzato potrebbe essere così negligente e avaro rispetto al proprio futuro. Mentre all'inizio degli anni '90 il governo e l'economia investivano il 25 percento del prodotto totale per costruire nuove strade, linee telefoniche, edifici universitari e fabbriche, nel 2013 questo numero è sceso ad appena il 19,7%, (Italia 18% - 50% costruzioni) secondo i recenti dati forniti dall'Ufficio Statistico Federale.
Questa non è una banalità statistica. Il futuro del paese e la vita quotidiana dei suoi cittadini dipendono da come ciascun euro viene usato oggi. Se un euro viene speso subito non sarà utile per il futuro. Può anche essere risparmiato per dei consumi futuri. O può essere investito in aziende, istruzione o infrastrutture, in modo da diventare la base per la prosperità futura, il progresso tecnico e altri posti di lavoro.
Il problema della Germania è che il denaro viene ora utilizzato essenzialmente per i primi due scopi. Secondo i calcoli del DIW, la caduta degli investimenti tra il 1999 e il 2012 ammonta a circa il 3% del PIL, ed è il più grande "divario degli investimenti" di tutta l'Europa. Se uno guarda solo agli anni tra il 2010 e il 2012 il divario è del 3,7%, ancora più grande. Solo per mantenere un livello accettabile di crescita, il governo e le imprese dovrebbero spendere 103 miliardi di euro in più ogni anno rispetto a quanto stanno facendo oggi.
Preoccupazioni crescenti
Questo è il punto chiave della diagnosi di Fratzscher — e adesso l'onere di trovare la terapia ricade su di lui. Da quando il ministro all'economia Gabriel lo ha nominato commissario agli investimenti alla fine dello scorso mese, si è trovato al centro del dibatto sulla riforma della spesa, dibattito potenzialmente tanto importante quanto lo fu quello sull'Agenda 2010 di riforme del mercato del lavoro e del sistema di welfare.
La recente flessione dell'economia rende il problema ancora più urgente. Ora che l'industria ha visto un declino nel volume degli ordini e ha ridimensionato la produzione, il governo deve decidere se contrastare tale declino con un programma di investimenti.
Ciò che recentemente non era altro che una possibilità teorica potrebbe presto diventare un punto critico fondamentale per la coalizione di governo della cancelliera Angela Merkel. Mentre la Merkel e il ministro delle finanze Wolfgang Schäuble restano determinati nell'aderire al proprio progetto di presentare un bilancio federale in pareggio per il prossimo anno, Fratzschern sostiene che bisogna prepararsi per lo scenario peggiore. "Se la crisi si aggrava ancora," ha detto in una conversazione con lo SPIEGEL, "sarà necessaria una maggiore spesa per stimolare l'economia".
Se ciò avverrà, il libro di Fratzscher potrebbe offrire un modello su come procedere. Nel suo studio, il presidente del DIW elenca meticolosamente i maggiori problemi di investimento per la Germania, dalle aziende alle reti di trasporti, dall'istruzione al piano di transizione energetica — il passaggio del governo federale dall'energia nucleare verso l'energia rinnovabile. Dati a sostegno delle sue teorie vengono da ogni angolo del paese.
Svanisce la lealtà verso la Germania
Rainer Hundsdörfer sta per compiere quella che è forse la decisione più difficile della sua vita professionale. La sua azienda ha in programma di investire 50 milioni di euro a breve, ma egli è incerto se valga ancora la pena di spendere questi soldi nella propria patria.
Hundsdörfer è l'amministratore delegato dell'impresa Ebm-Pabst. I ventilatori industriali prodotti dalla sua azienda a Mulfingen, una città nel sud della Germania, sono installati nei sistemi di refrigerazione dei supermercati, nei condizionatori d'aria degli alberghi e nei server informatici di tutto il mondo. I mercati esteri contano già per oltre il 70 percento delle vendite della sua azienda.
Ebm-Pabst fabbrica già da tempo alcuni dei suoi prodotti in India e in Cina, ma fino ad ora il suo obiettivo quando investiva in paesi stranieri era semplicemente quello di trovarsi più vicino ai suoi clienti. L'azienda era rimasta fieramente leale alla Franconia, la sua regione d'origine in Germania. Ma questa lealtà potrebbe svanire alla prossima decisione sugli investimenti. "Sarebbe la prima volta che scegliamo contro il sito di produzione in Germania," dice Hundsdörfer.
L'azienda vuole espandere l'impianto di Mulfingen e costruire un nuovo centro logistico. Questo creerebbe centinaia di posti di lavoro, ma ciò che manca è "un'infrastruttura stradale decente per rendere proficuo il nostro investimento," dice Hundsdörfer. I suoi camion sono costretti a usare la Hollenbacher Steige, una strada che si sta sbriciolando e che ha urgente necessità di essere riasfaltata. Spesso i camion che arrivano dalla direzione opposta non riescono a passare trovandosi uno di fronte all'altro su una strada così stretta.
Il progetto di costruzione stradale costerebbe 3,48 milioni di euro, ma lo Stato e il governo locale esitano da anni a mandare avanti la cosa, per via dei costi. Secondo Hundsdörfer i conti semplicemente non tornano. "Paghiamo più tasse noi in un solo anno di quello che costerebbe rifare la strada." Ora Hundsdörfer sta prendendo in considerazione l'impensabile: perché non costruire il centro logistico all'estero. Hundsdörfer non si troverebbe da solo, nel fare questa scelta.
La diminuzione degli investimenti industriali
L'economia tedesca evita da anni gli investimenti. Le aziende hanno quasi 500 miliardi di euro messi da parte in risparmi, secondo le stime del presidente del DIW, e tuttavia la proporzione di investimenti nell'economia privata della Germania è caduta da poco meno del 21 percento nel 2000 a poco più del 17 percento nel 2013.
Molti economisti concludono che le aziende sono preoccupate non solo per le strade che si sbriciolano, ma anche per la mancanza di lavoratori qualificati, le condizioni dell'eurozona, e i crescenti costi dell'energia. E questa paura, a sua volta, sta ostacolando i progetti per il futuro della Germania.
Le conseguenze sono drammatiche. Quando si calcola l'aggiustamento per l'inflazione, si trova che molte aziende hanno effettivamente ridotto le loro spese per macchinari e computer nel corso degli ultimi decenni, secondo i dati dell'Ufficio Statistico Federale. Questo è vero specialmente per l'industria chimica, ma anche le infrastrutture industriali stanno crollando, per esempio, nei settori dell'ingegneria meccanica e dell'elettronica.
Ma le aziende non hanno smesso del tutto di investire — semplicemente non stanno più investendo in Germania. La BMW, casa automobilistica bavarese, sta attualmente spendendo un miliardo di dollari per trasformare il suo impianto a Spartanburg, nella Carolina del Sud, nel suo più grande stabilimento a livello globale. La Daimler ora assembla la nuova classe C per il mercato americano nella città di Tuscaloosa, in Alabama. Dürr, il produttore di attrezzature per la verniciatura, ha ampliato i suoi edifici industriali a Shangai lo scorso anno, in modo che essi ora hanno raggiunto le stesse dimensioni di quelli della sua sede centrale a Bietigheim-Bissingen, vicino a Stoccarda.
Da quando il boom del fracking ha ridotto i costi dell'energia, gli Stati Uniti sono diventati in modo particolare il sito preferito per le aziende tedesche. In maggio, BASF CEO Kurt Bock ha annunciato un nuovo piano di investimenti da un miliardo di euro, il più grande nella storia dell'azienda, nella Costa del Golfo americano. Nello spiegare la decisione, la dirigenza ha fatto notare che il gas naturale negli Stati Uniti costa solo un terzo di ciò che costa in Germania. Il gigante tecnologico Siemens è andato anche oltre, annunciando che in futuro gestirà il suo intero business dagli uffici negli Stati Uniti.
Il contenuto di questo articolo, pubblicato da Der Spiegel - che
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4 2014 09 25 Ucraina : I russi vogliono farci morire di freddo
Lo ha dichiarato il premier ucraino Yatseniuk. D'inverno Putin potrebbe
usare il gas come arma di soggiogazione contro l'ex Repubblica sovietica.
Yatseniuk: "Russia vuole farci morire di freddo".
D'inverno Putin potrebbe usare il gas come arma di soggiogazione contro l'ex
Repubblica sovietica.
KIEV (WSI) - Quest'inverno la Russia potrebbe usare il gas
naturale come un'arma di soggiogazione contro l'Ucraina.
"Ci vogliono far morire di freddo", ha dichiarato in
un'intervista a Reuters a margine di una riunione dell'Assemblea Generale
dell'Onu a New York il primo ministro dell'ex Repubblica sovietica, Arseny
Yatseniuk.
"A parte l'offensiva militare, hanno un'altra carta nella
manica, che è l'energia".
"L'obiettivo ultimo della Russia è di organizzare un altro
conflitto energetico in Ucraina".
Il colosso russo del gas Gazprom
può ridurre le forniture all'Ucraina come ha già fatto in giugno dopo che
l'Ucraina non era riuscita a pagare in tempo.
La Commissione Europea sta lavorando a una soluzione pacifica al
conflitto in corso tra Russia e Ucraina, ma per ora non sono stati fatti troppi
passi in avanti.
A Berlino sono in corso negoziazioni con tutte
le parti coinvolte. L'Ue sta fornendo gas all'Ucraina tramite la Slovacchia. Gli ultimi mesi
di guerra tra ribelli filo russi e forze ucraine ha fatto più di 3 mila
vittime.
5 2014 09 25 Obama come e peggio di Bush
Vincitore del premio Nobel per la Pace, bombardando la Siria per
distruggere i militanti Isis, il presidente degli Stati Uniti compie gli stessi
identici errori del predecessore repubblicano. Copertina di The Economist
L'ultimo numero di The Economist, in uscita venerdi', raffigura
in copertina un Obama che riecheggia il Bush dell'attacco all'Irak.
L'ultimo numero di The Economist, in uscita venerdi', raffigura
in copertina un Obama che riecheggia il Bush dell'attacco all'Irak.
NEW YORK (WSI) - Le ultime decisioni prese dal presidente degli
Stati Uniti Barack Obama, ovvero i bombardamenti a tappeto in Siria di
postazioni dei militanti dell'Isis (lo stato islamico) hanno lasciato di stucco
gli osservatori internazionali di politica estera.
Nessuno credeva che il vincitore del premio Nobel per la Pace,
eletto alla Casa Bianca in base a una piattaforma che implicava la netta presa
di distanze rispetto alle due guerre americane in Afghanistan e Iraq sferrate
dal predecessore George W. Bush, 6 anni dopo si trovasse esattamente nella
stessa identica posizione dove era il vituperato presidente repubblicano dieci
anni prima. E Obama fu fautore e realizzatore - appena eletto - del ritiro di
quasi tutte le truppe Usa di terra dalle zone di conflitto.
L'ultimo numero di The Economist, in uscita venerdi' (qui a
fianco) raffigura in copertina il disagio di chi e' rimasto fortemente deluso
dalla nuova veste guerrafondaia del Comandante in Capo Usa: "Mission
relaunched - Missione rilanciata" strilla il titolo. Mentre il
fotomontaggio raffigura un Obama in tuta da pilota di caccia militare, il tutto
con riferimento al "Mission accomplished" (Missione compiuta),
striscione che il 3 marzo 2003 campeggiava sulla portarei USS Abraham Lincoln
dove George W. Bush atterro', arrivando come co-pilota di un caccia Navy S-3B
Viking per celebrare in modo plateale la cacciata di Saddam Hussein e la
conquista dell'Iraq.
Insomma gli Stati Uniti, secondo il settimanale inglese,
ripetono sempre gli stessi errori. E il motivo non pare misterioso: la politica
estera di Washington continua ad essere dettata dal potente e ricco complesso
militar-industriale che fa capo al Pentagono, e non alla Casa Bianca.
Ecco l'articolo di The Economist
FOR more than three years, Barack Obama
has been trying to avoid getting into a fight in Syria. But this week, with
great tracts of the Middle East under the jihadist’s knife, he at last faced up
to the inevitable.
On September 23rd America led air
strikes in Syria against both the warriors of Islamic State (IS) and a
little-known al-Qaeda cell, called the Khorasan group, which it claimed was
about to attack the West. A president who has always seen his main mission as
nation-building at home is now using military force in six countries—Syria,
Iraq, Afghanistan, Pakistan, Yemen and Somalia.
The Syrian operation is an essential
counterpart to America’s attacks against IS in Iraq. Preventing the group from
carving out a caliphate means, at the very least, ensuring that neither of
these two countries affords it a haven (see article).
But more than the future of IS is at
stake in the streets of Raqqa and Mosul. Mr Obama’s attempt to deal with the
jihadists is also a test of America’s commitment to global security. It is a
test that he has been failing until now.>>> continua qui http://www.economist.com/news/leaders/21620191-fight-against-islamic-state-will-help-define-americas-role-world-mission-relaunched
6 2014 09 25 Pirateria informatica: minaccia senza precedenti da nuova falla "Bash
Un nuovo bug mette a repentaglio la sicurezza dei computer Apple
e di quelli dotati di Linux: hacker potranno spiarci. Più pericoloso di
Heartbleed e Millenium Bug.
Un uomo digita dei comandi sulla sua tastiera a Varsavia, nel
febbraio del 2013. Copyright @ Reuters/Kacper Pempel.
NEW YORK (WSI) - L'ultima falla informatica scoperta rischia di
diventare più pericolosa per la sicurezza degli internauti e utenti di computer
di Heartbleed e del Millenium Bug.
Il nuovo bug è stato scovato nel sistema operativo Linux, Bash
potrebbe rappresentare una minaccia mai affrontata prima.
È l'allarme lanciato dagli addetti al lavoro nel campo della
sicurezza informatica.
Con Bash gli hacker potranno assumere il controllo di un sistema
operativo e spiarci.
Il team di sicurezza informatica del Dipartimento degli Interni
Usa (US-CERT) ha lanciato un alert in cui si specifica come la vulnerabilità dei
sistemi operativi doetati di Unix (Linux e OS X di Apple).
Al contrario di Heartbleed, che riguardava una falla Internet,
Bash colpirebbe direttamente a livello di software i computer.
Heartbleed riguardava OpenSSL, una implementazione open source di SSL e TSL, i due
protocolli che garantiscono la sicurezza
delle comunicazioni e transazioni di gran parte di ciò che sta sul web.
7 2014 09 25 Derivati: 5 banche Usa sono esposte per $40 mila miliardi ciascuna
Stampa Invia Commenta (5) di: WSI | Pubblicato il 25 settembre
2014| Ora 09:00
Si fa fatica anche solo a immaginare una tale somma. Se qualcosa
dovesse andare storto il sistema bancario dominato dalle "too big too
fail" rischierebbe grosso.
L'AD di Goldman Sachs, Lloyd Blankfield.
Ingrandisci
la foto
NEW YORK (WSI) - È una somma talmente alta che si fa fatica ad
immaginare. Stiamo parlando di 40 mila miliardi di dollari: è stata così
misurata l'esposizione ai derivati delle cinque maggiori banche statunitensi.
Ciascuna.
Prima se ne contavano quattro di istituti di credito "too
big to fail", ora se ne è aggiunto un altro.
Basti pensare che l'enorme fardello del debito nazionale americano è pari a circa 17 mila e 700 miliardi di
dollari.
Al contrario di azionario e Bond, i derivati non rappresentano
investimenti in qualcosa di concreto. Possono essere molto complessi, come
abbiamo visto per i mutui subprime cartolarizzati e rivenduti che sono stati
all'origine della crisi finanziaria del 2007-2008.
La verità è che le attività di trading nel mercato dei derivati
non si differenzia molto dalle scommesse sportive. È una forma di gioco
d'azzardo legalizzato e le banche "too big to fail" hanno trasformato
Wall Street nel più grande casinò della storia.
Se e quando la bolla dei derivati scoppierà, i danni che
verranno recati all'economia mondiale sono incalcolabili.
Ma se le attività di trading sono così rischiose non solo per le
banche ma per l'intero sistema finanziario ed economico, allora perché c'è
qualcuno che ancora ci punta così tanto denaro? La risposta è semplice e si
chiama avarizia.
Secondo i calcoli del New York Times, sebbene la crisi del 2008
abbia dimostrato chiaramente quanto pericolosi possano essere, le banche
statunitensi hanno "circa 280 mila
miliardi di dollari di derivati iscritti a bilancio" in totale. A soli
cinque istituti farebbero capo ben 200 mila miliardi.
8 2014 09 25 Anche l’India è sbarcata su Marte- Festa per il satellite low cost
Anche l’India è sbarcata su Marte
Festa per il satellite low cost
La navicella Mangalyann è arrivata in orbita intorno al pianeta.
Budget ridotto dell’operazione: 55 milioni di euro. Scambio di tweet con la
sonda americana
di Alessandra Muglia
Momenti di gioia al centro spaziale (Epa) Momenti di gioia al
centro spaziale (Epa)
Un lungo applauso ha scosso la sala di controllo del centro
spaziale di Bangalore ieri poco prima delle 8 quando è giunta la notizia che la
navicella indiana Mangalyaan era arrivata nell’orbita di Marte. Al primo
tentativo, come nemmeno americani e russi sono riusciti a fare (finora è
fallita oltre la metà delle missioni sul Pianeta rosso). Prima dei cinesi e dei
giapponesi. E con un budget ridotto (55
milioni di euro), un decimo di
quello impiegato dalla Nasa. Per questo la prima missione interplanetaria
dell’India appare come un’impresa memorabile. «La storia è stata creata oggi -
ha esultato il premier indiano Narendra Modi in gilet rosso mentre seguiva
l’operazione con gli scienziati dell’Isro, l’agenzia nazionale per la ricerca
spaziale - .Abbiamo osato raggiungere l’ignoto e abbiamo realizzato quasi
l’impossibile».
Il successo ha messo a tacere le polemiche che avevano
accompagnato il lancio della missione nel novembre scorso, quando era stata
definita da più parti come «un’inutile e costosa ricerca di prestigio
internazionale» in un Paese dove un terzo della popolazione è analfabeta e solo
il 50% ha accesso ai servizi igienici.
A ricompattare il Subcontinente è l’orgoglio di una nazione
entrata nel club esclusivo delle potenze andate sul Pianeta rosso (solo Usa,
Russia ed Europa finora erano riuscite) ma con una spesa di gran lunga
inferiore. C’è la soddisfazione di essere diventato il primo Paese asiatico a
riuscire nell’impresa, battendo sul tempo le potenze rivali («l’India è
riuscita dove Cina e Giappone hanno fallito» titolavano ieri alcuni media
locali).
A galvanizzare gli indiani poi, più che gli obiettivi
scientifici (la ricerca di metano o di altre indicazioni di una possibile vita
biologica) sono i risvolti economici
dell’operazione. L’India ha dimostrato che può svolgere missioni complesse a basso costo e
diventare trampolino di lancio per satelliti: si candida così ad attirare
investimenti stranieri, che danno speranza alla nuova generazione di
tecnici e scienziati. «L’India va su Marte ed è al settimo cielo» titolava il
Financial Times . L’entusiasmo si è riversato anche sui social network. E con
un tweet è stata accolta Mangalayaan nell’orbita di Marte: «Namaste @Mars
Orbiter» ha scritto la sonda americana Curiosity Rover che è da due anni sulla
superficie del Pianeta rosso, facendo riferimento al popolare saluto indiano e
congratulandosi con gli scienziati di Bangalore. E la navicella spaziale
Mangalyaan, nel suo primo tweet, ha risposto: «Howdy @MarsCuriosity? Keep in touch. I’ll be around.» (Come va Mars
Curiosity? Teniamoci in contatto. Sarò qui intorno»).
25 settembre 2014 | 09:27
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