martedì 12 aprile 2016

2016 04 13 – MO’ CI CHIEDE L’AIUTINO. LO SAPEVO CHE C’ERA LA FREGATURA.




2016 04 13 – Mo’ ci chiede l’aiutino. Lo sapevo che c’era la fregatura.



La prima volta che ho conosciuto di persona un terrorista fu in stazione centrale a Milano. O almeno così me la ricordo io.
Non parlo di ex terrorista, perche’ a quanto si dice, il terrorismo e’ ispirato dal bisogno di rivoluzione, ed e’ quindi riconducibile ad una forma madre, di natura, una sorta di dato di fatto. Uno dei soliti archetipi.
Nel tempo ho evoluto il tutto nel concetto a me caro di Revoluzione. Piccoli aggiustamenti marginali. Ma confesso che di necessità di rivoluzione ho sempre parlato, ci ho sempre sperato e in fondo l’ho sempre attesa.
Comunque, in stazione non stavamo progettando un attentato, stavo solo andando a Roma a cercare di raddrizzare Il manifesto, con mio cugino Sergio. Il che a mio modo di vedere sarebbe stato davvero un attentato allo status quo di quella omertosa larga porzione dell’editoria italiana.
Alla stazione, appollaiato sulla panchina, trovai un altro Sergio, che mi ascoltava con serafico scetticismo dissertare sulla evidenza della possibilità di raddrizzarlo, quel benedetto manifesto. Senza presunzione di saccenza o punte di sarcasmo mi guardava con l’occhio di chi sapeva che dovevo provarci sulla mia pelle.
E così, a Il manifesto ci andai per davvero.
Fecero Stalingrado. Più io avanzavo, più loro arretravano.
Ma oggi mi rendo conto che in realtà fui io a fare loro lo specchio riflesso, quando abbandonai il progetto d’amore con cui volevo riconvertirlo, e in men che non si dica lasciai con dolore l’incarico, sgorgando a futura memoria di tutti una lettera che scrissi con l’intento che fosse di fuoco.
Stalingrado sei tu, mi avrebbe poi detto uno. O, per meglio precisare, mi aveva detto che ero peggio di Stalin. Me lo disse lo stesso soggetto che mi aveva anche detto : “ebbe’, che ti aspettavi? Noi qua facciamo il socialismo reale.” Ossia quel socialismo che già ribattezzai “socialismo che passa il convento”, riferendomi al fatto che l’aggettivo reale era studiato ad arte nella logica di manipolazione dell’opinione pubblica, e non stava a significare vero, bensì quello che c’e’ nella realtà dei fatti. Nella pratica.
Ricordo il supporto silente di tanti, terroristi e periodisti, fatto di quegli impercettibili ammiccamenti e messaggi in latenza che formano un vero e proprio linguaggio, camuffato di omertà ma ben intriso di verità. Non vedevano in me un messia, ma solo quello che voleva organizzare ciò che non funzionava. Ma evidentemente a qualcuno faceva comodo che non funzionasse.
E così, oggi credo che prima della cura il bisogno di rivoluzione fu terrorismo, dopo la cura divenne associazionismo, in senso lato. Probabilmente penso a qualcosa di simile a quello che la cosa della Fiom di Landini si proponeva di essere, e che pochi parevano capire a fondo.
Ma io ne ho l’esempio tra le mani quando sfoglio quella piccola grande opera di artigianato di archivistica  che e’ il Rapporto sui Diritti Globali, curato da Associazione SocietàINformazione con la promozione della Cgil, in cui oltre all’analisi, la famigerata analisi di antica memoria, abbonda l’opera di catalogazione del patrimonio di alternative già a disposizione.
Ripartendo dai seventies, dunque, mi sento di dire che prima della cura fu il terrorismo, dopo la cura sono i  diritti globali.
In tutto ciò, il manifesto deve fallire. Anche la sinistra chiede catarsi. Leggo che i parenti di Mao sono a Panama. E mi viene in mente il film sulla storia di Norman Bethune,
Ricordo la riunione di consiglio de Il manifesto a seguito delle mie dimissioni in cui si disse: evitare la bancarotta a tutti i costi. Sarebbe un disastro per tutta la sinistra.
In ogni bancarotta che si rispetti, c’e’ sempre una quota di fraudolenza, Se così non fosse non si crasherebbe.
Oggi mi dico che il disastro non sarebbe per tutta la sinistra, ma solo per quella parte che la ha tradita in vario modo.
I Mao  a Panama…. Cose di pazzi!
E quanti Mao ci sono a casa nostra?
Mantenere la memoria e’ un altro conto, ma quella e’ enorme e già disponibile in formato informatico. Basta caricarla su un cloud qualunque, anche se io ho scelto quello del best player del web e posto tutto su vari strumenti di Google, perche’ mi sento di consigliare che se devo scrivere lo faccio dove quanta più gente possibile mi può trovare.
E così torniamo al prima e dopo della cura.

Parlo di cattocomunismo. Scrivo di sistema di valori e strutture di pensiero. Penso all’etica cristiana in fusion con l’analisi marxista e post marxista. E vedo sempre le stesse forme, gli stessi schemi.
Parcere subjectis, debellare superbos, scrive Virgilio, quello poeta, su una palazzina d’angolo del quartiere dove vivo.
E quindi adesso sono io che vi chiedo l’aiutino.
Scrivete, parlate, ricordate che la verità e’ rivoluzionaria.
Honi soit qui mal y pense, mi diceva sempre mia mamma.
E se potete sostenete il dopo la cura con il 5 per mille a www.dirittiglobali.it
La sinistra, quella vera, e’ questione di diritto naturale e quindi non muore mai.
Trova sempre il modo di reinstradrarsi, proprio come la vita fa nella complessità dei rami di un albero.
Ma con un aiutino in più può davvero sbocciare in miracoli.




2016 04 13 - Occhi di luce nella città del radio frutteto de la stecca



2016 04 13 - Occhi di luce nella città del radio frutteto de la stecca

E’ estate. E’ pieno mezzogiorno. Il sole e’ a picco. La canicola dovrebbe essere infernale. Ma invece no.
Appoggiati sulla banchisa del mare verde non c’e’ asfalto che si sciolga sotto i piedi. Solo grandi prati di una fioritura innaturalmente meravigliosa. I trifogli sono piuttosto transfogli. Forse per questione di urbanistica delle notti milanesi. Grandi lobi verde brillante a striature puntinate di un giallo pallido sorreggono certe altre nano formazioni arboree dalla statura in miniatura.
Ho già avuto quella impressione al CPS di Bonola qualche giorno prima. Un mare d’erba circondava la palazzina come fosse una nuvola compatta. Roba tipo cumulonembi, direi. Ma sotto quel mare si immaginava un brulichio di vita. Era come una piccola foresta tropicale vista dal silenzio di un pallone aerostatico. Una coperta di verde proteggeva e celava chissà quali meraviglie. Tutto in formato bonsai. E, cosa ancora più sbalorditiva, tutto a Milano.
I ragazzini giocano a pallone. Chi a pallone a canestro, chi a pallone a calci, chi a pallone a volo e, addirittura, chi a pallone americano con un mini pallone ovale tutto pezzato colorato. Un pallone mustang, meticcio. Sembrano abituati, come se si sentissero a casa loro. La canicola non li impressiona per niente. Bastava un prato, ordunque, penso io.
Le ragazze si affaccendano operose a preparare la grigliata, mentre gran parte dei maschietti ciondola in un trastullìo di armonica oziosa inutilità.
Una tavolata di assi di legno si srotola con lenta precisione diretta verso ponente, come un decumano che taglia il prato in due e traccia un viale verso il tramonto, che possa dunque calare senza perdere la bussola.
C’e’ solo un alberello, alto meno di me e storto quanto tante di me rimembranze. E’ un olivello, che grida attenzione, come se volesse ricordare a tutti che esiste anche lui. Ma nessuno lo sente. Lo guardo più da vicino, e lo sento distintamente bestemmiare. Immagino si rivolga soprattutto ai maschietti oziosi, in un coro di vegeti improperi, come se dicesse “guarda che mi tocca fare per campare. Qui tutto solo, storto, mal piantato troppo in superficie e ancora non dotato di sufficienti radici per far fronte a questa improvvisa estate africana.” Urla: “acqua, mi serve acqua. Sono fatto d’acqua e di luce, proprio come voi, e mentre voi pensate al prossimo futuro gozzovigliare a me chi ci pensa, che sono ancorato nel mio qui e ora ?”
E così ci penso io.
Radiocity e’ appena finita.
La nostra Radiocity è stata un successo strepitoso. Non solo perché sono passate dall'Assemblea delle Radio della Salute Mentale circa 160 persone (che già di per sé sarebbe un successo senza precedenti) ma anche per l'esposizione mediatica: Radio Rai1 con Emanuela Falcetti, Caterpillar su radio Rai2. L’Olivera di Radio La Colifata (Lochi fata, pare sia nell’etimo) in diretta con noi per tutto il tempo da e con Buenos Aires, e per finire l'incontro pubblico domenica 10 sul palco principale di Radiocity, marchiato di evento al pari di pochi altri in quei giorni anche se, almeno in apparenza, non c'erano le masse (era domenica mattina....).
Il lavoro di tutti è stato comunque sotto gli occhi delle 60.000 persone che sono intervenute al festival tra manifesti, riferimenti e citazioni varie.
Si aggiunge alla rassegna stampa una nicolastica apparizione (breve ma significativa) a Radio Popolare  sabato sera in cui Nicola ha parlato dell’assemblea e del movimento delle radio della salute mentale tutto.
Ci hanno ringraziato anche gli organizzatori di Radiocity, non solo per la presenza massiccia ma anche perché siamo stati gli unici a non creare alcun problema e non spazientirci mai per gli inevitabili problemi organizzativi...come dire...siamo abituati, se non addestrati.
E questo ci rimanda soprattutto, ancora una volta, che il mondo della salute mentale è anche una grande risorsa e questo è il modo migliore per contribuire ad abbattere lo stigma!!
Mentre alcuni maschietti armeggiano sui gradoni per il grande happening verso il tramonto, io sono l’ulivo, e mi avvicino a Nicola per dare un suggerimento. Ci vuole un piccolo frutteto che possa farmi compagnia. Cinque albicocchi, per cominciare. Gli allungo cinquanta euro, 5 volte i 10 euro di un piccolo virgulto di albicocco, e Nicola mi guarda come se fossi la madonna in persona. Ma io ero solo l’ulivo. Nicola mi dice: “Ah…, così? Ma poi ci aiuti tu a piantarli ?”. Ometto di proferir risposta, che sarebbe stata “ça va sans dire”.
Mi avvicino alle cinciallegre che fringuellano ciarle cinguettanti dietro alla cassa improvvisata. Mi hanno fatto pure la tessera di sostenitore, ma siccome “so’ ragazze” non avevano le tessere, per cui la facente veci e’ una ricevuta fiscale, decisamente benaugurale.
Dico che sono stanco e voglio tornare a casa.
Occhi di luce tutto attorno a me mi confermano che io non servo più.
Mentre cammino verso il metrò, il piccolo frutteto si disegna nella mia mente.
A casa lo metto in immagine progettuale, tenendo conto che i prati dovranno essere adibiti a parco e quindi non dobbiamo rompere i coglioni ma dobbiamo presidiare, piccoli e cazzimmosi, un punto che non dia fastidio alle future archistar del verde, e che almeno in principio, fino a che le radici non raggiungano Mafalda, serve molta acqua per cui e’ utile e comodo metterlo vicino alla palazzina.
Di conseguenza anche io, che sempre ero ulivo, mi colloco li vicino.
Ci troviamo tutti e sei, i cinque albicocchi e l’ulivo, a formare un piccolo portone a fine viale di ingresso.
Albicocchi in formazione a cuneo verso sud-ovest e ulivo verso est, verso il sol levante oscurato dalla palazzina, o almeno questi mi sembravano i punti cardinali, tanto io ulivo sono più che altro complemento d’arredo portatore di pace, non penso mica di mettermi a fare le olive, ma poi vai a sapere. Que serà serà
Mi sento in dovere  di spiegare che e’ meglio piantare cinque individui della stessa specie varietale, e non un albicocco, un melo, un pero, un ciliegio e un ….minollo, per il semplice fatto che quando tra qualche anno si faranno le albicocche almeno ce ne saranno per tutti e non ci si litigherà l’ultima ciliegia.
E poi ripenso a Olivera, e mi dico in spagnolo che a me me gusta l’albicocca.
A quel punto rimane solo un ultimo dettaglio. Una pianta di rose in testa al fronte umido del nord-est, alla maniera di certe viti di Francia, di modo che eventuali malattie fungine appaiano prima su di essa, che ci immoli i sui fiori sull’altare del solfato di zolfo e ci protegga dai funghetti, veri sporadici traditori in principio invisibili.
I cinque albicocchi, l’ulivo e la rosa formano il settetto nella mia mente, e poi nel disegno.
Li sento frusciare al suono del vento dell’amore, in leggerezza gravitonale.
E ricordo che: “per amore, per amore, tutto e’ sempre stato solo per amore”.