domenica 13 dicembre 2015

2015 12 13 - Canzone d'amore per Natale Pensiera - L'ermellotta sincronizzata e l'aquila astigmatica.




Le Clofrenì
(Les Claufrenìes)


Canzone d’amore per Natale Pensiera.



L’ermellotta sincronizzata e l’aquila astigmatica


?
All’anagrafe:
Pensiera Natale.
Chi era costei ?
Prima ancora che nata,
fu concepita e generata al senza poi,
in un trasverso della mente,
nell’era della grande armonia di sincronie,
del senza adesso,
del mondo maròn.



1          L’Ermellotta sincronizzata  e l’aquila astigmatica

L’ermellino e’ un piccolo predatore carnivoro di montagna, normalmente associato a simboli nobiliari, assai probabilmente a sua insaputa. https://it.wikipedia.org/wiki/Mustela_erminea
Dicesi nasconderello, una particolare attitudine comportamentale riscontrata in questi animali montani, che piccolini e bellini chiamiamo ermellini, i quali pare che sogliano rimbalzare tra i molteplici ingressi dei tunnel della loro tana, facendo capolino per brevi momenti un po’ qua un po’ la.
Gli ermellini sono animaletti nervosetti e frementi e vibranti, e chissà altri anti quanti, che si muovono a rapidi scatti della loro testolina periscopica guardinga che oscilla freneticamente da un lato all’altro, determinando in chi osserva la percezione di un effettivo tunnel scandito proprio dalle uscite dai lati del tunnel stesso e altresì detto effetto tunnel.
Ma l’ermellino non lo fa per divertimento.
La sua e’ una capocchia perimetrista in dimensioni quattro, fatta o evoluta apposta per scandire il perimetro della destra e della sinistra e del sopra e pure del sotto.
Dal primo lato scandisce la presenza di nemici di fanteria, a livello del terreno. Dal lato opposto sembra trasferire l’informazione a suoi compari di specie, anche se in realtà e’ solo. Dall’alto scandisce la presenza di nemici di aviazione. E in basso scandisce la presenza dei suoi pasti.
Gli ermellini sono anche animaletti tanalinghi, molto legati al loro covo di nicchia, con il quale stabiliscono un legame affettivo duraturo tanto quanto. Hanno quindi una natura circoscritta ad un ambiente dai contorni ben definiti dal quale si spostano poco, tranne che per cacciare, e nel quale sono alla costante ricerca di contatti, visivi o altrimenti sensoriali.
Essendo piccoli e vulnerabili, seppur anche vulneratori, la natura li ha infatti dotati di apparti di ricezione particolarmente sviluppati. Sono animali molto recettori che percepiscono suoni, vibrazioni, movimenti, immagini e forme, in ogni momento senza soluzione di continuità a prescindere dalla loro volontà.
Percepiscono un refolo d’aria prima ancora che arrivi; sentono rumori prima ancora che suonino, anche a frequenze per noi impensabili; hanno un campo visivo esteso a grandangolare dalle frenetiche rotazioni della testolina,  che permette di vedere tutto attorno al punto di osservazione.
E riconoscono forme, intendendo con ciò soprattutto che riconoscono schemi con cui avvengono dei fatti o delle occorrenze. Come d’altronde facciamo noi, le aquile, le marmotte e tutti i personaggi in cerca di un autorevole fonte di formazione di questa nostra favola.
Il loro principale nemico dall’alto sono i grandi rapaci, l’aquila in primo luogo. L’ermellino la riconosce quando e’ lontanissima in alto nel cielo non tanto perche’ la vede nei suoi contorni, ma piuttosto perche’ il suo cervellino di ermellino computa una sequenza logica che ricalca uno schema già noto: cielo azzuro + puntino nero non azzurro + ermellino bianco inerme sul prato = questa la conosco: e’ un’aquila per la quale io sono una polpetta.
Potete immaginare anche uno schema più veloce e più semplice. L’aquila scende in picchiata e punta l’ermellino il quale, mentre corre all’impazzata verso la sua tana con la capocchia rivolta all’indietro, scandisce la direzione dell’aquila e disegna la traiettoria dove essa planerà. Inizia a contare, cinque, quattro, tre due, uno…a destra! E l’aquila lo manca. Il ciclo ricomincia in un reciproco meccanismo di calcolo e ricalcolo dello schema che si sta reiterando.
Quindi l’ermellino sopravvive se sa riconoscere una serie di informazioni che compongono uno schema, una forma. E l’aquila mangia se sa fare altrettanto. Di certo emerge una altro schema: quando un puntino nero nel cielo incontra un puntino bianco sul prato, tra i due, l’ermellino e’ quello che se la fa addosso.
Forse a causa della loro relativa tanicità, o forse per la natura di predatore carnivoro, l’ermellino non e’ un animale particolarmente sociale ragione per la quale non vive in grandi agglomerati o colonie popolate di ermellinei compari.
Sono animali dalla vita solinga, nel corso della quale si stagliano sovente sulla loro cengia che li sostenga come una lusinga tenendoli circoscritti senza copia, non in coppia, ragion per cui e’ improbabile vederli mentre ballano la milonga delle altezze dai verdi prati.
Un giorno l’ermellino che c’e’ in noi, mentre cammina ramingo ma guardingo pensando un m’astengo, io non appartengo al tipo casalingo ma sogno un tango o almeno un fandango con esemplare fiammingo o vichingo o nibelungo anche se così io non dico che rimpiango ma rimango dove mi intrattengo con poco marengo, incontra una marmotta, la quale anch’essa albergava in noi stessi.
La marmotta https://it.wikipedia.org/wiki/Marmota e’ un erbivoro paffuto, non un carnivoro, al contrario dell’ermellino molto sociale, che vive in colonie di tunnel scavati nel terreno.
E’ davvero molto sociale, tanto che ha due sue particolarità rilevanti ai fini della sopravvivenza, e della nostra storia.
1.      Pattugliamento sociale visivo da parte di sentinelle
2.      Termoregolazione sociale per aumentare la probabilità di superare l’inverno.
Sul primo tema, osserviamo che quando si avvicina un predatore, la regola è fuggire. Come per l’ermellino.
Ma la marmotta paffuta e un po’ impacciata non e’ schizzatina e veloce come l’ermellino, per cui per scappare in fretta, le marmotte hanno escogitato un sistema molto efficace.
E’ un sistema di classe, e non di supremazia del singolo.
Non c’e’ un nobiliare re ermellino che scappa nella sua tana più veloce possibile lasciando indietro tutti gli altri. E questo già spiega perche’ la marmotta ci piaccia subito di pancia.
La prima marmotta che fiuta il pericolo dà l'allarme e in pochi secondi tutto il gruppo si rifugia nella tana.
La tecnica è semplice. La "sentinella", si  perche’ il gruppo elegge delle sentinelle il che già solo ci sembra “tanta roba”,  si alza ritta sulle zampe posteriori, nella posizione a candela, spalanca la bocca ed emette un grido simile a un fischio, provocato dall'espulsione di aria attraverso le corde vocali, che secondo gli studiosi è un vero linguaggio.
Non tutti possono fare la sentinella : bisogna avere sensi aguzzi e prontezza di riflesso, e così pur essendo la loro società una società di pari a pari, la categoria della sentinella e’ tenuta in particolare considerazione.
La Gran Maestra Sentinella, prima tra pari ma venerata per la sua veneranda età e conseguente conoscenza che molti chiamano cultura, controlla che tutte le esperienze fatte vengano tra tutti condivise in modo da diffondere questo fattore di sopravvivenza : la cultura, appunto.
Fioriscono racconti e leggende che vengono fischiati ogni sera alla luce della luna, quando c’e’. E ricordàti nella memoria di bisbiglii a bassa voce, o sotto la voce, quando la luna non c’e’.
E questi servono a istruire, ma soprattutto ad affascinare, le giovani ermellotte aspiranti sentinelle.
Va inoltre precisato che le sentinelle devono essere giovani, perche’ più resistenti alla fatica dell’immobile vigilanza e anche perche’ più reattive nei loro giovani sensi dai principi incorrotti. Ma come tutti i giovani, sono un po’ stuferelle. Ragione per cui molto si prodiga la Gran Maestra Sentinella per tenere viva l’attenzione all’apprendimento delle giovani pulzelle, con continue invenzioni e trovate codificate nelle tonalità e intensità dei fischi che emette.
“Fischia, che l’aquila ti passa” e’ il motto delle giovani ermellotte.
Inoltre, e’stato evidenziato come la socialità della marmotta sia un elemento determinante per la sopravvivenza anche in un altro senso.
Alcuni dati dimostrano che i cuccioli hanno più possibilità di farcela quando vanno in letargo con i genitori e con i fratelli maggiori. Quando invece nella tana mancano il padre e la madre oppure è scomparso un genitore, nel 70% dei casi la prole non supererà i rigori della stagione fredda.
Quella della marmotta è, quindi, una termoregolazione sociale: più si è, più possibilità ci sono di sopravvivere, soprattutto per i piccoli, che hanno dimensioni che non permettono loro di accumulare un sufficiente strato di grasso prima dell'arrivo del freddo e, per questo motivo, hanno bisogno di essere scaldati dagli adulti. Questi ultimi, infatti, presentano una maggiore perdita di peso corporeo quando all'interno della tana ci sono i nuovi nati dell'anno.
Le marmotte più scienziate chiamano tutto ciò con la pomposa definizione di efficiente utilizzo delle energie, o risorse, e relativa condivisione delle stesse. Ma quando lo fanno, vengono spesso derise per il loro tecnicismo di casta dalle giovani sentinelle, quasi che queste ultime agissero anche come sentinelle delle idee distorte spesso gergalmente definite dal volgo ermellotto come fenomeni di ideativa di idee del cazzo.
Un giorno particolarmente fausto, come già dicemmo che si erano incontrati, per la strana alchimia dell’amore, un ermellino e una marmotta si innamorarono, e convolarono a nozze, transgenerali ma speciali, in un empito di transversale fratellanza alpestre che speriamo arrivi presto oltre il loro contesto fino oltre Mestre in ogni ambito non solo campestre affinche’ ministre assortite e illustri prevosti celebrino giostre non più sinistre di mescolanza in fratellanza tra ogni terrestre, e oltre.
Nascono così 5 piccoli ibridini.
Sono i primi 5 trans della razza del futuro della montagna.
Sono le prime 5 ermellotte, che desiniamo femmine in onore del genere femminile medesimo, anche se più propriamente dovremmo chiamarle “ermellottrans”.
Va anche notato che sempre per la grande alchimia della forza dell’amore, che alcuni conoscevano già, le ermellottine delle prima pentade non sono nate sterili come certi muli.

E così le ermellotte crescono e si riproducono, in molti modi, e siccome la grande alchimia dell’amore le ha dotate di  “due palle ed un uovo cosi”, letteralmente intendendoli portatori di geni, nell’arco di poche generazioni di mamme portatrici, vale a dire mammifere e non portatori, la montagna e’ piena di ermellotte.
Ermellini e marmotte sono del tutto scomparsi, fusi nella nuova razza trans, oggettivamente superiore.
Le ermellotte, infatti e naturalmente, assommano caratteristiche genetiche dei due ceppi originari le quali si sono assemblate in ulteriori combinazioni, come e’ normale che capiti ai sistemi adattivi complessi come quelli dei geni. A volte, purtoppo, anche a quelli dei cretini.
Possono andare in letargo, ma se hanno da fare anche no, e restano al lavoro.
Sono erbivore o roditrici e nel rispetto dell’equilibrio dell’ecosistema hanno stabilito per legge di vietare l’allevamento di animali a fini cibatori. A dar loro da mangiare ci pensa il dopo inverno, che da loro funziona in quel modo in generale e non da generale.
Sono grandi e paffute, ma ermellineamente muscolate in modo da risultare veloci e agili.
Cambiano la pelliccia, ma solo la propria, in modo da potersi mimetizzare sia in inverno che in estate, come facevano gli ermellini.
Vivono in grandi colonie, perche’ l’ermellino si era stufato di stare da solo. E la marmotta, che e’ gentile di indole, forse proprio perche’ erbivora, lo ha accolto volentieri nei suoi tunnel che sono più comodi e spaziosi e dove  c’e’ posto per tutti.
Come e’ strana la natura: chi vive in grandi assembramenti nutrendosi di ciò che viene rinnovabilmente offerto dalla terra e’ sempre disponibile ad accogliere qualcun altro. Chi vive nel suo castello dorato, l’intruso se lo mangia.
Ma l’ermellino nella sua ibridazione si e’ erbivorizzato, e  beneficia così anche dell’energia termica delle marmotte, smettendo di fottersi dal freddo tutto solo nel suo buchetto da reuccio.
In cambio l’ermellino conferisce alcune sue caratteristiche determinanti per lo sviluppo successivo, della storia e della colonia.
Con queste, le ermellotte hanno soprattutto assemblato un sistema di difesa passiva ultra sofisticato, che anche in aggiunta alla mimetizzabilita’ della pelliccia bicolore, le ha rese specie dominante nel panorama di quei costoni di montagna dove regnano oramai indisturbate.
Assommando la capoccetta periscopio a “pop-up” dell’ermellino e la sua particolare ricettività sensoriale, tipica del predatore solingo, con il sistema di comunicazione in interconnessione tramite l’utilizzo di sentinelle fischianti della marmotta, intere colonie si difendono egregiamente in particolare dalle aquile la cui vita e’ diventata molto più dura.
La particolare caratteristica ereditata dall’ermellino, testimoniata dal tipico “pop-uppare schizzato”, e ritorno, dall’imboccatura della loro tana, li rende in effetti animali che, se ci mettiamo al posto dell’aquila, possiamo definire binari. Ora ci sono e ora no. Ma tutto molto, molto velocemente, come in una metafora di processione che incede al passo di carica della sua ultima generazione.
Al tempo stesso la “fischianza” già tipica della marmotta, li rende animali in interconnessione attivabili a comando: basta la prima sentinella che dia il fischio, e tutte le ermellotte corrono ai loro posti di combattimento, seppure passivo. Vale a dire che si rendono privativi del loro essere mangiabili, andando a nascondersi.
In tal senso sono animali non violenti, di probabile reincarnata genetica gandhiana memoria. Onore al merito, deve essere questo il motivo per cui conferirono a Gandhi medesimo l’appellativo, e già non titolo inesistente nella società di normali pari a pari, di Grande Ermellotta, pur con gran sollazzo del mahatma stesso che aveva sempre sognato di vivere in montagna.
L’ermellotta e’ binaria anche nel vello non solo nel pop-up della capoccia. Il che potrebbe forse sembrare fenomeno direttamente correlato al bisogno di pendolare nervosamente e continuamente fra gli estremi della tana che ne determini una pervasiva alternanza nell’altalenanza di ogni cosa che fanno.
Essendosi adattati a vivere in un ambiente che dire ostile sarebbe eufemistico, senza voler essere blasfemo seppur forse epifanico, in primo luogo per la presenza di grandi volatili predatori, aquiloni nel cielo i quali epifani lo sono per natura, le ermellotte quando c’e’ neve sono bianche e quando c’e’ prato, direte voi, sono verdi.
Ecco un errore nella vostra capacità di programmazione genetica, o forse non siete mai stati in certe zone di alta montagna dove quando c’e’ prato il prato c’e’ solo a chiazze, piccole eruzioni verdi tra terra e rocce sparse qua e la. E visto da lontano e’ spesso più marroncino che verde.
Quindi, quando c’e’ prato le ermellotte sono marroni, perfettamente adattate alla distribuzione della loro probabilità di sopravvivenza.
In un particolare momento dell’anno come pure nel suo reciproco, nel momento in cui si sciolgono le nevi e le chiazze di prato sono ancora solo un’idea nei grandi cicli della vita, l’ermellino diventa pezzato come un cavallo mustang, il cavallo meticcio degli indiani del west, che derivato dagli incroci degli antichi cavalli spagnoli, divenne il re della prateria un po’ marrone e un po’ bianco lui mismo. Ma lui a proposito.
L’ermellotta sta facendo la muta, la quale come noto non e’ un meccanismo on-off, ma piuttosto un processo di flusso graduale. Quindi l’ermellotta  può apparire pezzata, appunto.
Più precisamente, non tutti gli ermellini sono perfettamente sincroni rispetto al grande ciclo della vita, ragion per cui può darsi che cambino colore al momento sbagliato.
In tale caso vengono, giustamente, detti asincroni.
Per momento sbagliato intendiamo sbagliato rispetto a vari distinti fattori.
Troppo tardi rispetto alle nevi che si sciolgono, il che li lascia nudi nel loro bianco sulle chiazze di prato e di terra e di rocce.
Troppo presto, anche per effetto del clima che rende brusco e discontinuo il passaggio da inverno a primavera, per cui diventano marroni quando c’e’ ancora il bianco della neve sul quale spiccano come polpette.
Oppure con momento sbagliato intendiamo sbagliato perche’ asincroni un po’stonatelli rispetto al dovere evitare le rotte  delle abitudini delle aquile, che cacciano di preferenza in certi orari ed in certe larghe tracce dalle traiettorie tipicamente circolari, che sarebbero quindi teoricamente e praticamente riconoscibili. Il che rende questa ermellotta asincrona una sorta di minus habens della sua specie.
O più semplicemente ancora, il momento in cui muta e’ sbagliato perche’ nell’ordine naturale delle cose così deve essere, e ciò che e’ sbagliato per qualcuno a volte non lo e’ per qualcun altro.
Ecco, tutto questo per dire che l’asincronia di quell’ermellotta non e’ una colpa ma e’ un dato di fatto.
Come e’ un dato di fatto sociale, che finche’ si scherza uno può essere asincrono quanto gli pare, ma quando c’e’ da fare qualcosa di importante l’asincronia diventa fastidiosa e dannosa in particolare perche’ determina grandi sprechi di energia volti a cercare di tenere a tempo il soggetto.
E’ quindi pure un dato di fatto che la colonia di ermellotte, per un qualche riflesso condizionato, o in, scappa al sibilo del segnale di allarme, lasciando il povero asincrono a crogiolarsi nella sua ignoranza.
L’ermellotta pezzata, o in senso reale o in senso metaforico in quanto alternanza di comportamenti distonici rispetto alla partita a scacchi tra i ritmi della terra, del disgelo o delle prime nevi, a quel punto non si può salvare.
E anzi, deve essere sacrificata con il duplice obiettivo di rinforzare la genetica della colonia, in questo caso per selezione naturale, e al tempo stesso nutrire la specie delle aquile la quale può così continuare a svolgere il suo ruolo di selettore genetico.
E ora trasliamo il racconto su di un altro piano di realtà o punto di vista. Iniziamo a raccontare la nostra vicenda dal punto di vista di un’aquila un po’ speciale, che ha la particolare prerogativa di essere astigmatica.
Noterete subito che citiamo con reverenza il termine astigmatico, che normalmente viene inteso come una tara. E’ perche’ siamo su un altro piano di realtà.
La nostra aquila, se da lontano ci vede come un’aquila, e se riesce addirittura a fissare il sole, da vicino non ci vede un acca. Non distingue tra ermellotta ed ermellotta, ne le interessano granche’ i dettagli della sua preda, una volta che si e’ lanciata in picchiata al subconscio grido di “bianca o maròn, purche’ me magni il polpettòn””.
L’unica cosa che la attiva e’ l’asincronia.
In tal senso l’aquila non nutre pregiudizio nei riguardi di tutto ciò che la sfama. E ha sviluppato l’abilità del riconoscerlo in una forma univoca, che e’ proprio l’asincronia.

Una mattina l’aquila, la nostra aquila paradigmatica, si svegliò di buon’ora e decise di fare una volatina interlocutoria per sgranchirsi le penne al primo schiarore di tutte le idee. In fondo alla valle vide un uomo solitario che arrancava per la salita, incurvato sotto il suo zaino arancione.
L’aquila avvertì una strana vibrazione nella aurale sua terra di mezzo e capì che doveva andare più vicino.
Presagendo qualcosa di insolito e degno di nota, se non armonìa, svegliò anche sua figlia che, di malumore, la seguì.
Con sorpresa le aquile captarono i pensieri dell’umano che stava salendo nella speranza di incontrare il suonatore di montagne, noto per le sue rivelazioni in quota. Doveva chiedergli dove trovare una certa Renata. Pareva fosse questione di vita o di morte.
Le aquile conoscevano bene il suonatore di montagne perche’ le dilettava spesso con una musica contornata da suoni che, seppure non ascoltabili dall’orecchio umano, echeggiavano per tutta la vallata.
E così volteggiarono fin quasi sulla testa dell’uomo per fargli sapere che lo potevano aiutare.
L’uomo le percepì d’improvviso come ombre nella luce del sole e iniziò a pensare a che cosa somigliasse quella montagna.
All’improvviso le aquile pensarono a qualcosa che in qualche mondo lontano doveva essere attinente, e l’uomo capì che una di loro era Renata.
Alzò lo sguardo e si chiese, però, chi delle due fosse Renata.
Madre e figlia sembravano gemelle come un ritornello.
Il lui aveva un urgente e imprescindibile bisogno di parlarle, alla Renata, perche’ aveva avuto una visione di una montagna, che molto assomigliava a quella gemella su cui erano adesso, in cui appariva questa che doveva essere la sciamana, di nome Renata.
L’aquila pensò : “io mi chiamo Renata ma non sono una sciamana. Sono solo un’aquila.”
E l’uomo pensò : “ecco, adesso ho capito. Questa montagna ha tanto la forma di una porzione di cervello”.
Ed in effetti quella lunga prateria contorta di rocce grigiastre inframmezzate solo a tratti da piccoli lampi di neve, terra e prato, aveva un non so che di cervellesco, se non cervellotico. Erano tutti i buchi da cui spuntavano le teste delle ermellotte in intermittenza, e pure in sequenza ruotandosi nell’autoemergenza, che sembravano tanti neuroni, generatori di sinapsi quando i loro sguardi si incrociavano.
D’improvviso un fischio si levò nell’aria e centinaia di testoline prima invisibili si girarono nella stessa direzione all’unisona sincronia attivata dal fischio, per poi capriolare immediatamente dentro al loro buco e scomparire alla vista. Un’ermellotta recettore aveva ricevuto uno stimolo visivo e aveva prontamente dato un allarme sonoro che come un comando di imprinting aveva generato un comportamento di massa che possiamo definire, empiricamente se non  scientificamente, un “fuggi-fuggi generale”.
L’uomo restò sbalordito, ma non fece in tempo a sbalordirsi che vide l’aquila partire in picchiata alla volta di quello che per l’occhio dell’uomo era un mare di nulla.
Più l’aquila accelerava, più l’uomo si concentrava per capire dove stesse puntando, finche’ l’uomo notò un neurone asincrono. Un ‘ermellotta pezzata stava beata immobile al sole, del tutto ignara della rapace sua prossima fine di vita.
L’uomo allora capì.
Se la montagna e’ un cervello pieno di neuroni in ebollizione in piccole eruzioni fuori dalle tane, allora il neurone asincrono e’ un neurone malato che tutto chiuso su se stesso non dialoga con gli altri, o dialoga male con un altro asincrono, e genera malsane interruzioni ideative, come strade senza uscita, che normalmente riconosciamo anche come idee del cazzo. Nello specifico una idea di privilegio o supremazia potrebbe ben rappresentare il concetto e, con un piccolo esercizio di proiezione nei panni dell’ermellotta, apparirà a tutti evidente con chiarezza che starsene spaparanzati al solo in certe occasioni e’ davvero un’idea del cazzo.
Ecco allora che l’aquila, che deve necessariamente essere un aquila astigmatica perche’ il cibo e’ cibo senza distinzione di colore, svolge la sua funzione di inibitore e, senza pregiudizio alcuno, impedisce all’ermellotta stonata, o meglio asincronizzata, di riprodursi indiscriminata.
L’uomo restò ancora più sbalordito quando capì che l’aquila era stata effettivamente sciamana, ma in uno sciamanesimo di prassi, seppur non di maniera, evidenziato nella verità di quei metodi di sopravvivenza montana usati da tante vite.
Anche se non ne conosceva ancora il nome, l’uomo era quindi quasi certo che l’aquila fosse davvero Renata.
Mentre l’aquila si divorava la preda, l’uomo si accinse a tornare verso casa oramai certo di una verità.
Se voglio evitare la proliferazione delle idee del cazzo, meglio stroncarle sul nascere con due principali opzioni metodologiche di base:  l’asporto o l’incapsulo.
S’immaginò come in una partita di backgammon. Ma solo perche’ non sapeva giocare a scacchi. “E’ questo il campo dove anche le aquile giocano a backgammon”, si disse.
E’ tutta una questione di bianchi e di neri, che nel nostro specifico si camuffano di marrone. Quando l’aquila vede un neurone asincrono, di colore solitario e opposto a quello che dovrebbe avere, ella sa implicita che e’ la sua missione quella di asportarlo sul nascere per poi scioglierlo dentro alla sua pancia. Se lo mangia, proprio come si dice di una pedina di backgammon.
E questo era l’asporto. L’altra tecnica fondamentale e’ l’incapsulo, riconducibile invece al gioco degli scacchi, che però non conosciamo a sufficienza per poterne disquisire.
Ma possiamo associare l’idea, la nostra, al concetto di: “circondiamola!”o “svergognamola!”. Intendendo con ciò l’idea altra, quella del cazzo.
L’aquila allora ribalta un tressessanta e in un gioco di quadriglia diventa sentinella come l’ermellotta.
E’ la sentinella dei pensieri alla quale la sua pancia fischia quel comando: “blocca quella sinapsi, spegni quel diodo…che se magna!”
Questo e’ il gran  segreto della forma, non in quanto condizione fisica ma in quanto schema ricorrente, ma bisogna scendere nell’essenza e non fermarsi alla forma in superficie perche’ di formalismi non ci si nutre.
L’aquila, già in un principio di pesantezza digestiva, pensò: “se a questo tipo qua tutto questo gli sembra un cervello ecco perche’ a me sembrava un computer. Ecco perche’ continuavo a pensare alle ermellotte “binarie”. Certo, mi farebbe comodo se qualcuno mi spiegasse cosa cazzo e’ un computer. Ma non sulla digestione.”
Intanto in un dove altro ma non nel quando, un neurologista, studioso della logistica di vagoni di neuroscensazioni, dislocava forme di container ricolmi di pensieri nel porto a forma di canale, dove s’erano approdati a riposare, e li spostava continuamente perche’ aveva finalmente capito che il grande gioco dei pensieri, anche se lo potessi fare, non lo devi mai fermare. Se lo fai tutto diventa asincrono, e allora : “occhio all’a qui la”. Se lo avesse fatto, inoltre, sarebbe rimasto disoccupato clochard come un farmaco retard, scaduto in quella grande marina di depot.
E quindi, i pensieri, meglio farli girare in un continuo andirivieni tra banchina e banchina che tracciasse traiettorie traccianti, forme, schemi, utili prima o poi o li o altrove.
Anche se non sapeva bene a cosa servisse il tutto. E nemmeno cosa volesse dire.
Vide una luce. Era la luce del sole dentro all’occhio di Renata che disse a lorpensieri : “ma se la montagna va al cervello e il cervello per voi e’ un computer, allora la montagna e’ nella testa e la testa e’ il mio computer.”
Brutte neuroscensazioni attraversarono il logista che si disse: “meglio fare qualche esercizio quiorante e spostare qualche container un po’ qua e un po’ la. O da lì a là e bla bla”.
“Anche se a prima vista sembra solo una svista utile quanto un antennista animista un poco affarista ma non altruista”.

2          Epilogo

Un giorno, all’alba della fine del tempo di quel tempo, la Gran Maestra Ermellotta e l’aquila Renata sono sedute e appollaiate sulla cengia più alta della montagna ermellotta.
La Gran Maestra Ermellotta si chiama così perche’ e’ la Prima Veneranda Saggia Maestra Sentinella.
L’aquila si chiama Renata, perche’ si narra che fosse la reincarnazione di se stessa, anima eterna in corpo di uccello mortale.
Quello era il primo inverno che con il disgelo non aveva visto nemmeno un ermellotta asincrona.
Dopo anni e anni di accurata, seppur implicita, selezione, la malattia dell’asincronicità era stata sconfitta.
L’evento fu festeggiato per giorni e giorni da tutti gli abitanti della oramai smisurata colonia.
Le ermellotte, se ricordate, sono interconnesse e quando una di loro soffre, soffrono anche le altre.
Anche se alcuni ermellotti scienziati ritengono che la sofferenza del singolo venga ridistribuita in piccole dosi tra tutti gli altri, come con l’energia e le risorse in genere, rimane il fatto che una tristezza di un singolo diventa, anche giustamente, tristezza di tutti. Fortunatamente per loro vale anche all’inverso, con l’allegria.
Quindi la fine dell’era del “sacrificio dell’asincrono”, profetizzata dalle visioni di tanti sogni rivelatisi in ordine sparso nella colonia sin dalla notte dei tempi e poi tramandata di generazione in generazione, era un evento da tanto atteso da tutti, che aspettavano di non dovere più soffrire per quel pari tra i pari, seppur forse un po’ meno alla pari.
L’animo nobile della Gran Maestra non pote’ non pensare alla povera aquila Renata.
“Come farà a mangiare ? Come riuscirà a vivere ?”
E perciò l’aveva invitata a quell’appuntamento galante con tanto di magnificenza di vista dall’alto sul loro mondo intero.
Non aveva pensato che fosse un rischio, sia perche’ i suoi peli a metà di ermellino non percepivano vibrazioni negative e sia perche’ il suo animo nobile era anche per natura gentile, e l’animo puro va sempre ascoltato e assecondato.
L’aquila Renata si stagliava immobile nel cielo, visibile da qualsiasi punto delle vallate circostanti.
E la Gran Maestra che le stava acquattata di fianco, disse : “E adesso” ?
“L’adesso non e’ più con fesso ne circonflesso”.
L’aquila capì d’essere stata eccessiva, nel suo opposto d’iperbolico divenuto estremista di sintesi.
“Non c’e’ nessun adesso”. “La metamorfosi e’ terminata. L’ermellotta e’ un essere perfetta”.
“E io non ho più fame. Mi nutrirò di aria, di acqua e di luce, come fanno le piante nella loro perfezione di alchimisti naturali”.
“Da ora in avanti io non sono più aquila più di quanto tu non sia più marmotta o ermellino. Questa era la mia ultima reincarnazione. Il mio compito era fare in modo che l’ermellotta regnasse indisturbata e pacifica su questa porzione di creato”.
“Questo e’ quel regno dei peli che vi cantate, o meglio fischiate, fin dalla notte dei tempi.”
E mentre mormorava queste ultime parole si alzò per il suo ultimo, maestoso, volo a cavallo di un raggio di luce imbrigliato nel suo occhio a qui li no, generando infinti versi persi al vento di tutti i pensieri.
“L’Io non serve più. Io non servo più” furono le sue ultime parole, mentre la sua figura rimpiccioliva sempre di più fino a trasformarsi in un ultimo impercettibile battito d’ali di una farfalla che si sciolse nel tutto.
La Gran Maestra si rammaricò. Pensò tra se e se che non aveva fatto in tempo a fare una ultima domanda all’aquila.
Era curiosa fino da piccola, nel suo desiderio di conoscenza geneticamente e sanamente asservito alla sopravvivenza, di sapere quanti asincroni che aveva mangiato fossero maschi e quante femmine.
Si avviò cionderellando verso casa, fino a che ad un tratto sentì una voce sussurarle : “maschi, maschi, che ti aspettavi? Era il gene d’ermellino, maschio nel nome e nei fatti, che faceva bordellino. Voi marmotte andavate già abbastanza bene come prima”.
La Gran Maestra si girò, ma non c’era nessuno.
Un filo d’erba le sorrise danzando con i suoi simili alle onde del vento.
Ma lei non lo vide.
Un aquila dall’impianto visivo qui e li no, vista detta asvista, all’altro capo dello stesso intorcinato filo da seguire per districarsi in quel magma di versi che alcuni ritennero universi in un empito di istinto di appropriazione indebita multiversale, pensò: “ beh, non e’ che tutte le femmine rifulgano splendore di intelletto. Mi sa che c’entra la normale della distribuzione del cretinismo, che a quanto pare e’ assolutamente democratica oltre che astigmatica”. “Proprio come me.”
Appena compiuta la giravolta in quel pensiero, tutte le ermellotte della montagna sentirono un brivido percorrere le loro pellicce, con il ciocche’ chi vibrò di piacere e chi di vergogna all’idea che avevano o non avevano mai riconosciuto l’aquila per quello che era.
La Gran Maestra, assorta nelle nuvole dei pensieri, non si accorse di nulla.
Mentre tornava verso la tana, vide invece un uomo in lontananza con un zaino arancione che arrancava pesantemente e dolorosamente in discesa, come prima in salita, e senza sapere perche’ si disse tra se e se: “ah questi maschi, proprio vero che stanno sempre a fare le prime donne. Dove si crede di andare quello li che si vede da qui che non ce la fa più” .
L’uomo scendeva per la montagna pieno di ammirazione per quello che la colonia di ermellotte gli aveva insegnato.
D’un tratto si chiese : “ma queste ermellotte saranno maschie, femmine o cosa? Come si riprodurranno? Non saranno mica trans?”
L’uomo non conosceva la leggenda del Primo Inammoramento, quello da cui nacquero i primi 5 ibridini, ragione per la quale non avvertì la profonda verità della sua preguntiva riflessione.
In lontananza un’ermellotta sentinella non pote’ trattenere le risate che di, e da, norma fuoriescono in forma di fischiettate intermittenti e si mise a ridere, nel vedere tutto quello stridere nell’incedere del mondo, al pensiero di “certo che siam tutti trams”, noto motivetto zuvolante fin dai tempi delle prime melodie allora ancora non mutate in sincronie.
L’aquila da dentro il suo filo d’erba pensò : che gabbia di matti.
E finalmente tutto tacque in un fragoroso silenzio di pensieri di alte vette montane.
In quel mentre uno scoiattolo che cercava in ogni filo d’erba l’altra via per stabilire un nesso permanente per la mente tra finzione e realtà, sorvegliava furtivo di sottecchi un neuroscensato, orgoglioso della scoperta che la montagna computava nella testa di qualcuno, bevendo calvados in sua ignara compagnia.
“Diffida dei tecnici”, pensava. “Si innamorano della tecnica e perdono di vista l’insieme del tutto”.
Il filo d’erba gli rispose stigmatico: “Si, e’ così”.
Si guardarono senza bisogno di sguardi e mormorarono all’unisono del silenzio: “tutto nacque da un battito d’ali di una farfalla, perso in quello stesso vuoto dove io cesso il mio adesso.
“Nell’adesso che non c’e’ più tu sarai nella chiarezza.”
“Non cercare la coscienza, troverai solo errori nell’ammasso d’energia.”
“Respira la coscienza nel fremito del vento di tutti i pensieri, e volerai tra i battiti delle sue ali.”
E conclusero, parafrasando un certo raro tutti in coro :
“anche in montagna la vita e’ un grande fiume”.
“Mo’ si”.



mercoledì 9 dicembre 2015

2015 12 09 - Dirotta la rotta della manipolazione e del pregiudizio. Una presa di posizione. Un colpo di timone.



Le Clofrenì
(Les Claufrenìes)


dirotta la rotta della manipolazione e del pregiudizio



Una presa di posizione, un colpo di timone.



1          Una presa di posizione, un colpo di timone

Gli scritti seguenti nascono anche in relazione dalla mia esperienza di partecipazione alle attività del Gruppo Rari &Venti, attivo sull’ argomento della sensibilizzazione ai temi della salute mentale.
Intento originario era di pubblicare una raccolta di scritti vari tra alcuni mesi.
L’escalation di deriva ideativa che percepisco montare globalmente mi ha però suggerito di postare adesso quelli in allegato, come potenziale antidoto alla deriva stessa.
Li pubblico senza che il Gruppo ne sia a conoscenza, ma confido nella loro empatìa.
In ogni caso qualsiasi idea o parola che possa risultare offensiva o fastidiosa e’ frutto esclusivo della mia sola ideazione e responsabilità.
Spero che in questo modo possiamo contribuire a dare un colpo di timone che aiuti a dirottarci sulla rotta giusta.
Non ha senso studiare e scrivere, se poi non caliamo il tutto nella realta’.
In tal senso ho deciso, quindi, di prendere pubblicamente posizione.


2          Sommario





3          La normale salute mentale


La salute qui versale,
del mentale e’ la normale.
Vale ovunque tra universi,
tranne dove ancor s’e’ persi.

Da vicino e da lontano,
siamo tutti sola norma.
Non e’ vero che nessuno,
sia, da prossimo, normale.

Questo e’ dunque il ciò che vale.
Lumicino e vaticinio.
Se guardati da vicino,
vedrai in tutti la normale.

La normale che intendiamo,
e’ davvero cosa chiara;
distribuisce tutti i casi,
all’intorno di una media.

E’ così che vi dimostra,
che seppur non tutti uguali,
c’e’ uno spazio entro il quale,
il nostro stare e’ funzionale.

“A che cosa funzionale?”
Chiederete artificiali.
Questo e’ ovvio, miei signori:
a crear mondi reali.

Tutto quanto v’inventiate,
per a voi dare importanza,
e’ soltanto un artificio,
che per altri e’ sacrificio.

Mentre voi giocate ai dotti,
sciorinando pur teorie,
qui qualcuno sogna vitti,
la nascosti in una media.

E cosa e’ una tal devianza,
con si grave mal di panza,
se non gran chiaroveggenza,
di palese e greve demenza?


Se ti scappa qualche nesso,
tutti addosso a dirti fesso.
Non sia mai che rompi il cazzo,
tutti addosso a dirti pazzo.

Ma chi e’ matto per davvero ?
Chi fa danni quanto impero.
Vi par peggio un poverello,
o un Attila novello ?

Ecco a voi il nuovo soldo,
che misura il  manigoldo;
metta all’ indice il pazzo,
che dei danni paghi il pizzo.

Hai pensato fuori norma ?
Ti sei posto oltre l’asse ?
Molto bene, puoi provare,
del tuo danno il contrappasso.

E così vedrete tutti,
che asportati i veri matti,
dall’inferno quaggiù in terra,
ci troviamo nel dopoguerra.

Si potrà ricostruire.
Si farà nell’abbellire,
che le menti d’acuire,
sognano sempre a non finire.





4          Normale

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
L'aggettivo normale sta solitamente a indicare la mancanza di fattori eccezionali.

4.1     Matematica

  • In matematica e in fisica, l'aggettivo normale è spesso erroneamente considerato sinonimo di perpendicolare, stante che la perpendicolare attiene a un particolare segmento o piano o vettore ortogonale a un piano orizzontale (filo a piombo). Si parla quindi ad esempio di retta normale ad un piano, di componente normale di un vettore, ecc.
  • La normale è un sostantivo indicante un vettore normale ad una superficie
  • la normale è una variabile casuale molto importante, detta anche gaussiana.
  • Con forma normale si intende anche la forma più semplice a cui possono essere condotte le equazioni e disequazioni

4.2     Chimica

  • In chimica con condizione normale (c.n.) si intende condizione convenzionale di temperatura e pressione in cui eseguire misure. Alpha test riporta la normale come un'unità di misura.

4.3     Scuola Normale


5          Distribuzione normale

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Nella teoria della probabilità la distribuzione normale, o di Gauss (o gaussiana) dal nome del matematico tedesco Carl Friederich Gauss, è una distribuzione di probabilità continua che è spesso usata come prima approssimazione per descrivere variabili casuali a valori reali che tendono a concentrarsi attorno a un singolo valor medio. Il grafico della funzione di densità di probabilità associata è simmetrico e ha una forma a campana, nota come Campana di Gauss (o anche come curva degli errori, curva a campana, ogiva).
La distribuzione normale è considerata il caso base delle distribuzioni di probabilità continue a causa del suo ruolo nel teorema del limite centrale. Più specificamente, assumendo certe condizioni, la somma di n variabili casuali con media e varianza finite tende a una distribuzione normale al tendere di n all'infinito. Grazie a questo teorema, la distribuzione normale si incontra spesso nelle applicazioni pratiche, venendo usata in statistica e nelle scienze naturali e sociali[1] come un semplice modello per fenomeni complessi.
La distribuzione normale dipende da due parametri, la media μ e la varianza σ2, ed è indicata tradizionalmente con: \ N(\mu;\sigma^2).[2]

5.1     Storia

Gauss descrisse la "distribuzione normale" studiando il moto dei corpi celesti.
Altri la usavano per descrivere fenomeni anche molto diversi come i colpi di sfortuna nel gioco d'azzardo o la distribuzione dei tiri attorno ai bersagli. Da qui i nomi "curva di Gauss" e "curva degli errori":
Può essere interessante notare che nel 1809 il matematico americano Adrain pubblicò due derivazioni della legge normale di probabilità, simultaneamente ed indipendentemente da Gauss.[3]
I suoi lavori rimasero ampiamente ignorati dalla comunità scientifica fino al 1871, allorché furono "riscoperti" da Cleveland Abbe.[4]
Nel 1835 Quételet pubblicò uno scritto nel quale, fra le altre cose, c'erano i dati riguardanti la misura del torace di soldati scozzesi e la statura dei militari di leva francesi. Quételet mostrò come tali dati si distribuivano come una "Gaussiana", ma non andò oltre.
Fu Galton a intuire che la curva in questione, da lui detta anche "ogiva", poteva essere applicata a fenomeni anche molto diversi, e non solo ad "errori". Questa idea di curva per descrivere i "dati" in generale portò ad usare il termine "Normale", in quanto rappresentava un substrato "normale" ovvero la "norma" per qualsiasi distribuzione presente in natura.
Nel tentativo di confrontare curve diverse, Galton - in mancanza di strumenti adeguati - si limitò ad usare due soli parametri: la media e la varianza, dando così inizio alla statistica parametrica.


6          Un tram chiamato Norma

Gli spostamenti, che poi sono piccoli viaggi, non sono tutti uguali.
Una cosa che li differenzia parecchio è il mezzo su cui si fanno.
Ogni mezzo, infatti, ha dentro di se una diversa visione del mondo che attraversa.
Ma ha anche diverse conoscenze che lo rendono quello che è. Che lo fanno funzionare.
E ognuno e’ più o meno zen.
Per me si può definire una graduatoria a seconda di quanto armonici si sia con lo spazio in cui si viaggia.
A piedi, per me, è “il top dell’armonico”.
Forse c’è anche la barca, è vero. E’ assolutamente armonica, ma ha due mancanze fondamentali.
La prima e’ che non si fa fatica.
E la seconda e’ che voglio svelare in segreto una mia recente mirabolante scoperta. Almeno fino al tempo in cui si scioglierà tutto il ghiaccio dei poli, a Milano non c’e’ il mare.
E navigare sui Navigli, se non sei un poeta legale, ha la stessa poesia che ha cavalcare un metrò “su una vecchia pista da elefanti stesa sopra al macadam”. Come cantava Paolo Conte, pur pensando a un tram, in quel piccolo capolavoro di poesia che e’ lo sparring partner  cui gli applausi son dovuti per amore.
Comunque, subito dopo i piedi e la barca, c’è la bici. Perché si viaggia nello spazio in compagnia delle dinamiche di fisica e meccanica.
Poi la moto, che viene dopo perché la produzione di energia necessaria non è più generata dai muscoli e dalla fatica, ma è delegata ad un motore. Però si rimane dentro lo spazio da attraversare.
Poi la macchina, che rispetto alla moto chiude fuori il mondo esterno e ci fa diventare un corpo estraneo.
Poi il treno, che oltre a quello che fa la macchina, ci priva già in partenza di ogni idea di libertà, non solo perché non lo guido, ma anche perché va dritto da un punto ad un altro senza possibili altre opzioni, nemmeno ideative.
Infine l’aereo, che non solo fa come il treno, ma ci rende completamente avulsi dallo spazio e da tutto, proiettandoci in una dimensione fantastica: quella delle sardine inscatolate volanti.
E poi c’e’ la mosca ....gialla.
Ne esiste soltanto una piccolissima quantità che vive per lo più nascosta in grandi alveari urbani fatti di cemento e stanghe di ferro incastonate nei pavimenti.
Con le sue forme di geometria antica, resta in letargo tutto l’anno, cibandosi di ricordi ancorati alle sue sedute di falegnameria, piccole applique liberty e finestrini a cremagliera.
Se sei fortunato e vivi in città come Milano, anzi…solo a Milano, la potrai incontrare in quell’unico giorno dell’anno nel quale esce dal letargo e si lascia pazientemente rotolare in giro, signora delle sue vie, al ritmo del suo carico di Raripanti e variamente festanti sacripanti tanti.
Chi dovesse incontrarla vedrebbe che bel mare che c’e’.
E’ infatti questo il bel mare di Lombardia.
Il mare dove navigare a Milano, lo troverete attaccati ad un tram chiamato Norma.
E’ il tram della normale salute mentale.
Ad essere più precisi, non e’ un tram su cui navigare, ma e’ un tram che nuota in quel mare di cittadino con te appesoci addosso come ad un salvagente.
La prima volta che l’ho preso ero da poco uscito dal reparto di psichiatria del Fatebenefratelli.
O forse non ero uscito da tanto poco, ma a me sembrava poco per quel perverso principio con cui il tempo si dilata e non passa mai quando e’ un tempo brutto, mentre si allunga e finisce subito quando stai bene.
Mi trovai con iniziale imbarazzo a girare per la città in una situazione pubblica, a contatto, seppur fugace, con un sacco di gente.
Alla fine della giornata, la sequenza di incontri e piccoli contatti umani mi aveva posseduto, e quando arrivò il momento di andare a casa avrei voluto indirizzarmici in tram, su una mia linea privata che avesse girato in eterno. La mia linea C.
La seconda volta, vale a dire un anno dopo, certi Raripanti mi sorpresero ancora di più.
Sempre affogato in un bagno di emozioni per il contatto con un sacco di gente, tra cui moltissimi curiosi, scoprii che a Norma piaceva anche ospitare concerti rock.
Un maestro suonava, con la pancia della sua chitarra, un motivetto battente che cantava qualcosa come : “centro e ricentro, basso il baricentro, siamo l’epicentro, venuti tutti dentro”.
Roba di evidente genesi malata, probabilmente originata da qualche mente ancora in cura in reparto, che pareva riferirsi ad un metaforico, o paraforico, centro di gravità per la mente puntato sulla città dominio, già stato, di Norma.
Ma appunto per questo suo evidente contenuto altalenante di terapie e malattie, il motivetto fu assai commovente, a dispetto di una certa strutturazione vagamente punk.
La terza volta, arrivati in centro, ci fu l’apoteosi.
Ora. Bisogna precisare che i confini tra salute  e malattia sono spesso sottili.
Assai di frequente capita che chi si presumerebbe sano, adotti atteggiamenti e comportamenti palesemente categorizzabili come “fuori”.
Il che  e’ di per se stesso una bella dimostrazione dei danni che può creare il desiderio di categorizzare.
Si nasce categorici.
Si muore stigmatici.
Ma nel nostro caso invece non c’e’ dubbio.
Alcuni Raripanti, loro molto astigmatici ma completamente matti, si erano inventati un gioco dalla evidente connotazione di follia.
Il tiro allo stigma con bersagli e pallette di velcro, con tanto di mezzibusti stigmatici e conto alla rovescia proteso all’azzeramento del valore di ogni pregiudizio.
Insomma, sul tram si avvicendavano “velcrocecchini” che ogni volta che colpivano un bersaglio facevano scendere il “serbatoio punti” di quell’agente dello stigma.
In tutto questo, io che ero alla mia Norma alla terza (era la terza volta che partecipavo al tram), ed ero orami a cuore piuttosto aperto, questa volta cercai di metterci del mio.
Il mio ruolo, congruo con la mia estrazione scolastica, era di fare il contabile dello “scaricamento” del serbatoio punti.
In alcuni casi devo ora confessare che feci come fanno tanti grandi “taroccatori di conti” sulle spalle della povera gente.
Ma io lo feci a fin di bene.
Si, il tempo e’  maturo e io devo liberarmi la coscienza dai sensi di colpa che mi tormentano.
Ricorderò, spero per sempre, le facce illuminate di gioia di alcune “persone pazienti” che magari non riuscivano a centrare subito il bersaglio; ma io li facevo ritentare a oltranza.
Fino a che centravano un “10 punti” e io dicevo loro autoritario: “non era un 10. Era un 50! Ho visto bene io”.
Ogni risata strappata, mi risuona ancora dentro.
E spero che a loro abbia dato un po’ di vita in più. 

Mentre scrivevo questo raccontino, ho incontrato un amico e gliel’ho fatto leggere.
Alla fine lui mi fa : “scusa, ma il tram non e’ maschio ? “
“Come fa a chiamarsi Norma ?”

Mentre ripensavo alla perfidia delle categorie, ho risposto :
“Beh, che c’e’ ci strano ?
Sarà una trammessa.
O forse sarà un trams.
Noi astigmatici, quando c’e’ da combattere lo stigma, vi lovviamo tutti quanti.”



7          L’incipit dello stigma, il raro privativo e la lingua del Raro. Surrealismo, associazioni, sconnessioni e riconnessioni del Raro che fa il Faro anche noto come Fraro.

Ovvero:  quando il linguaggio del Raro diventa battito d’ali di un bassotto che alle otto ogni mattina si alza in volo dalla boscaglia per andare di  pattuglia nella jungla delle idee a stanare da bambinello da smorzare sul più bello ogni primo fuocherello d’incipit di stigma già, o mo, spuntato ma per fortuna ancor novello.
Quando il Raro si fa faro, e la parola e’ un pipistrello, anche un fronzolo friulano può associarsi ad un friariello.
Il quale e’ sia un vegetale tipico del sud, sia un simpatico vezzeggiativo evocativo proprio per onomatopea del nostro Fraro.
A quel punto sei a Milano,  la cassoeula e’ a Positano, e se e’ ora di mangiare, un sol porco puoi evocare.
E’ il maiale l’essere porco, che la fame rende uguale: quando hai fame da schiattare,  la salsiccia e’ universale.
Fromboliere di parole, provo a fare il giocoliere, per vedere se volano a-frivole le parole più leggere.
Colibrì fino a Partenope trovo un nobile di scarto, forse resto di un maiale, entra al circolo a giocare.
Colibrì parto da qui, si, ma poi dopo viaggio a lì. E siccome il viaggio e’ lungo,  me lo faccio anche sul treno. Colibrì di meridione, sempre pigro non son fesso, viaggio in treno pur se in classe bi, o B,  a dir due,  proprio come il nobile sclassato, pure  simile a tal italo, replicante treno rosso che non serve proprio a un casso.
Tranquilli tutti : e’ solo psicanalisi. Associamo libertà, e pure in, un po’ qua ed un po’ la.
Servirebbe anche al conte, che nel circolo fa il bisonte: come in cristalleria, sfascia tutto e poi va via.
Non ha soldi il poverello. E’ arrogante nel cervello. Come spesso a loro accade, si crogiuola nel privilegio, senza sapere d’esser malato. E adesso ve lo renderemo dimostrato.
E’ l’autismo che lo guida: ogni nobile che ho incontrato crede, almeno in una qualche monoporzioncina, d’esser dio.
Solamente per qualche gene, in cui lui confida e ha fede per dogmatica prescrizione di famiglia.
Ah, se solo sapesse che di geni ne abbiamo così tanti, e che ancora c’e’ chi dice che non sappiamo a cosa servono tutti. O almeno non sappiamo a cosa servono tutte le loro possibili combinazioni interne e/o per rapporto al mondo esterno.
Si perche’ se lo sapesse, sapesse pure che e’ invece provato che più ne abbiamo e più combinazioni possibili otteniamo, e che quelle combinazioni vengono attivate o tornano utili in base agli stimoli esterni che riceviamo, dalla chimica alla luce a chissà cos’altro.
Allora capirebbe all’istante, che quel suo gene dominante non e’ una benedizione ma anzi e’ la causa prima del suo non esser sacripante, figurarsi raripante.
Ma stai delirando, direte voi ?
No tranquilli, alla fine emergerà un senso. Almeno questo e’ il senso a cui penso mentre son denso nel rifiutare il censo con il nonsenso.
Insomma, il nobile va al circolo e siccome non ha soldi, perche’ e’  decaduto e di certo senza eleganza nel rispetto del paradigma in reciprocità che dice che signori si nasce e poi ci si muore pure, e ritorno, si fa addebitare l’importo nel registro debitori.
Il ragioniere gli fa : “conte, io scrivo eh?”
E lui risponde : “scrivi, scrivi”.
Vanno avanti così per qualche giorno fino a che il ragioniere chiama il direttore perche’ oramai il debito e’ tanto. Il direttore dice : “Conte, lei ci ha detto di scrivere, scrivere, e noi abbiamo scritto, scritto. E mo ?”
Mo, per chi già non lo saccia, e’ un’abbreviazione latina di “modo”, usata spesso anche da Dante, la quale testimonia la profondità delle radici del napoletano il quale e’ sibbene lingua di re e di signori, troppo spesso vituperata da personaggetti in varia guisa versanti in stato evidente di affanno mentale.
Con tanti ringraziamenti a chi non cozza con la picozza, ma aggiunge una erre con cui schermisce e irretisce con quel fioretto che non da sciabolate, ma pare un dispetto e che a me sa tanto di cazzimmetta.
Si lo so, siete sempre più sconcertati, ma abbiate fede. Vedrete che si arriva da qualche parte. In questo caso tenete a mente tre cose importanti:
1.      che c’e’ lingua e lingua.
2.      che per usare a proposito una lingua bisogna conoscerla.
3.      che per conoscerla bisogna percorrerla con costanza in sempre maggiori spirali di profondità.
In una scala da uno a dieci io mi do una sufficienza risicata. E tra poco capirete perche’.
Spero che ne riparleremo tra una decina d’anni per vedere l’effetto che fa. Proprio come se volessimo andare allo zoo comunale, per vedere le fiere, bestie, feroci annidate nei meandri dei nostri pensieri.
Comunque torniamo al nobile che guarda il ragioniere e il direttore, e tutto tronfio nel suo petto gonfio firma il suo epitaffio suicidando l’eleganza che non  ha con un raffio profferendo tutto d’un soffio : “e mo, lieggi, lieggi”.
Lieggi non e’ una città belga pronunciata in romanesco, ma sta per “leggi”, voce del verbo leggere, indicativo presente, seconda persona singolare. A Napoli, come in tutta Italia.
E “mo leggi” vuol dire qual cosa del tipo “cavoli vostri”.
Arroganza del privilegio genetico, cvd. Come volevasi dimostrare.
Ma qui arriva la sorpresa : una lingua antica ha avuto tempo, o fortuna, o adeguate circostanze, o altri divini interventi,  di costruire sovrapposizioni e moltiplicazioni varie, tali che la rendano complessa.
E così scopriamo che a Napoli “lieggi” vuole anche dire “leggeri”.
Oh. Quanta poesia. Nel senso di quanta utilità poetica in pratici quanti monoporzione. Una parola, due significati a seconda del contesto.
Ho letto che Shakespeare usava circa 30.000 parole, ma con circa 100.000 significati utili.
Noi siamo a due significati a parola. Solo per “lieggi”. Shakespeare era a 3, ma in media su tutte le sue 30.000 parole. Il che fa una bella differenza rispetto al nostro 2 su una parola sola.
Chissà a quanto si può arrivare.
 Qualcuno prese a riferimento la parola Matrice – Treccani come  un caso paradigmatico di “multisenso” , termine derivato dal “multiverso”,  che vuol dire senso valido in diverse interpretazioni parallele. Per la precisione 6.
E qui però e per dunque e perbacco e pure perdindirindina, si apre il colpo di scena, nel dramma della storia del nostro povero conte.
Se il conte ha detto “leggero”, allora forse la frase “e mo leggi, leggi” non voleva dire “sono cavoli vostri”.
Forse il senso era invece “state leggeri” ovvero “state calmi”.
Nel qual caso avremmo inveito contro il povero nobilastro il quale magari era un astro e non furbastro a libro mastro, mentre noi, come poetastro manco fossimo  Zoroastro, lo inchiodammo a far pollastro allorquando il poverello voleva solo fare il signore con tutto il candore che il suo stupore trasformò in calore avvampato in rossore sulle gote sue chiare in una vergogna per il di se fraintendimento che noi non vedemmo perche’ tutti presi nei nostri nessi precirconflessi attorno ai quali mai ci saremmo creduti fessi. E invece lo fossi.
Bel casino.
Non importa quanti significati ha una parola.
Basta che ne cicchi uno una volta e la frittata e’ fatta.
Quell’errore si instrada e si replica poi da solo, in particolar modo quando e’ un meme, cioe’ una cosa dotata, per vari fattori tra i quali la nostra predisposizione a renderla tale ad esempio se coerente con nostri latenti pregiudizi, di capacità propria di innesto, e di rimesto, in quelle teste un po’ maldestre magari poco lustre di gente un po’ palustre.
Da un piccolo “state calmi” in omissione della nostra intenzione siam riusciti a distruggere intere stirpi credute turpi ma forse  invece no.
E voi che leggete, son sicuro, ci eravate cascati tutti. Quasi tutti. Almeno alcuni, valà.
E quale e’ la nostra lezione ?
E’ duplice e semplice, complici davvero.  
In primo luogo se non avevamo capito un acca era colpa del senso che abbiamo dato a una parolina sola, piccolina piccolina, e quel senso glielo abbiamo dato perche’ era quello che volevamo che avesse. Profezia autoavverante, dunque. Su quella abbiamo costruito castelli interi di teorie e categorie e fantasticherie divenute poi ostracie e pregiudizi di intere specie o classi. Quante saranno le trappole linguistico-semantiche sul cammino della nostra vita di conoscenze o presunte tali più o meno instillateci e poi distillateci nelle nostre coscienze?  
Lo stigma e il pregiudizio nascono insignificanti e poi diventano catastrofi. Questo e’ il punto. Ricordate le stelle cucite sui vestiti degli ebrei. All’inizio era solo una stella, ma solo all’inizio.
Quasi quasi, anzi senza quasi,  mi dico da solo : “la prossima volta che penso, male, mi prendo a schiaffi da solo”.
La seconda lezione che voglio offrirvi e’ ancora più grave. Ho elaborato una struttura narrativa articolata e spiritosa e prolissa e ridondante, una cascata di fuochi d’artificio e paroloni e connessioni e invenzioni, con il preciso intento di manipolarvi, abbagliandovi come animali selvatici inchiodati sull’asfalto della conoscenza dalle luci dei fari di un auto in corsa, in corsa disgraziatamente proprio verso di voi con l’unico scopo di compenetrarvi con l’asfalto per una futile scommessa fatta in un bar sulla invalidità della legge della non compenetrabilità dei corpi.  E almeno alcuni di voi, probabilmente, fino al “lieggi-leggeri” ci sono cascati.
Ma che bella persona, questo raripante : guarda quanto e’ colto. Come usa bene le parole. Non potrà che avere ragione. Dagli addosso al nobilastro. Nichiliamolo orsù. Sarà stata solo un eccezione, o tentata dissimulazione, quella desinenza in Tro che per noi di solito e’ un non però. Oibò.
Ecco, chi vi vuole manipolare costruisce storie simili ancora più articolate e così ci caschiamo tutti.
Inoltre ce le innesta in testa, piano piano a un certo ritmo che e’ studiato adeguato a dar tempo di sedimento.
Mai tutto un ragionamento in fila, ma un pezzetto al mese o a settimana, fino a quando l’esposizione con l’effetto ripetizione, e associazione, anche via imitazione, diventi un cancretto nel cervelletto che ci fa inetto.
Lo abbiamo sotto gli occhi oggi (dicembre 2015) : una campagna battente contro un terrorismo che, nel relativismo di una dimensione totale globale, possiamo definire di nicchia stante l’insussistenza di qualsiasi genocidio nei “nostri” confronti come invece si protrae quello in tanti paesi del mondo per evidenti responsabilità di noi stessi (noi mondo progredito senza virgolette questa volta), e in pochi cicli hebdomadaires (settimanali in francese)  la Francia e’ diventata fascista.
Perdonate il comizietto da personaggetto politico, ma io sono ancora uno di quelli orgoglioso di incazzarmi quando mi raccontano minchiate. Ma per riconoscerle bisogna studiare.
Si perche’ e’ invece una verità quella che il satanasso studia sempre dall’alba dei tempi, ed e’ di certo ben evoluto.
Esiste una sottile differenza tra un assoluto, o essenza, e un suo simulacro dentro al quale innestare un virus.
E un satanasso e’ molto bravo ad usarla a sua utilità. “Ci sono cristiani e mussulmani” : questa e’ una verità. “Ci siamo noi cristiani e loro mussulmani”:  questa piccola iniezione di pronomi e’  una manipolazione.
Basta poco: e d’altronde e’ storia ben nota a chi si dimena tra i tentacoli della piovra del pregiudizio così diffusa nel campo della salute mentale, che noi conosciamo bene mentre loro confondono sempre.
E ora torniamo a noi.
D’altronde che saremmo stati surrealisti e un po’sconnessi seppur interconnessi già ve lo dissi già prima che iniziassi la mia prolissa operazione di profilassi, che a quanto dissi e ridissi potrebbe però anche essere sembrata anafilassi.
Voglio dare alcuni spunti su come comunica un Raripante o almeno un Sacripante, non solo con le sue parole in interconnessione ma anche con le non parole.
Si può giocare con le parole anche come abbiamo fatto noi in precedenza, senza che questo comporti intenti manipolatori. Possiamo scegliere una narrativa articolata e spiritosa e prolissa e ridondante, una cascata di fuochi d’artificio e paroloni e connessioni e invenzioni senza che ciò sia male. Anzi facendo si che sia uno stimolo con cui il cervello giochi ad inseguirsi e acchiappandosi si rinforzi da se stesso le sue connessioni interneuronali, le sue sinapsi, esattamente come i muscoli di un body builder.
Ecco dunque un racconto per voi. Dopo l’introduzione ve lo siete pure meritati.

Piazze, sprazzi, pazzi, lazzi, frizzi, e ..schizzi.
La piazza e’ ancora vuota. E’ bella piazza Selinunte. Ha un non so che, che proprio perche’ non so, descrivere non saprei. Anche se lo vorrei.
Sta li in mezzo alla sua quasiperiferia, prima della periferia più hard e dopo la seconda cerchia dei Navigli che ogni volta che li nomino maledico quell’inizio secolo scorso in cui me li hanno sotterrati, i miei bei Navigli.
Milano e’ una città piccola e geometrica, e già oggi te la giri tutta a piedi o con i mezzi o con la bici. Ma perche’ non li riaprono ‘sti Navigli e l’Atm non pensa ad un “servizio gommoni”? Su, ragazzi. Un po’ di fantasia, anche nel governare! Abbiamo già anche i mezzi. Possiamo usare gommoni confiscati agli scafisti. Anzi, così abbiamo la scusa per continuare a non fare un cazzo in tutto il medio oriente; così ci continuano a mandare i gommoni. Peccato che poi dentro ci mettano tutti quei cristiani, nel senso di anime che in tal senso sono cristiani anche se mussulmani, ma li possiamo sempre usare come barriera corallina artificiale perche’ c’e’ chi dice che sono fatti in replica di certi nostri personaggetti di lega di stronzio resistente a qualsiasi trattamento d’intemperie o antiparassitario. Tanto di base sono quasi umani (un po’ meno, certo), e quindi non gli serve l’acqua salata, va benissimo anche quella dolce dei Navigli.
Già vedo i titoli dei media, sempre sul pezzo quando si tratta di bersi qualche minchiata. Magari stavolta si bevono anche qualche bicchierata d’acqua dei Navigli. Terminale.
Scoperta foresta di posidonie nere in mezzo alla darsena. Pare si tratti di posidonie mutanti, perche’ emanano di continuo vibrazioni sonore che suonano largo circa così: “nozonadare, nozonadare”.
Certo l’indotto della sanità subirebbe un duro colpo: senza inquinamento sai quante malattie in meno.
Ma ho già la soluzione. Ho visto in televisione una nuova pubblicità, bella eh!, di una certa corporation anglofona che si fa chiamare Culeit Incorporated, o simili. Potremmo fare fornire alla regione, che poi ce le rivende a dieci volte tanto perche’ anche le tangenti tengono famiglia (o forse erano le famiglie che tengono tangenti), dei pratici stivaletti contro le infezioni dei morsi delle pantegane e le verruche da pavimentazione asterile della nuova darsena, che pare di essere in una piscina shinyopticalklinker degli anni settanta. Le pantegane le spacciamo come nutrie così diventano specie protetta, non le possiamo ammazzare, e fanno girare questo indotto come un orologgetto concepito da un personaggetto con i neuroni mentali dislocati nel fondo di qualche buco nero. Singolare, non ità: “il” neurone mentale.
Anzi, no. Meglio ancora. Le nutrie le facciamo fare ai “Nozonadare”. Non hanno peli ma sono neri. Gli diamo un buono pasto ogni cento piedi morsicati. Poi se  affogano ci facciamo dei pelliccioti di pelle nera che vendiamo ai fascisti, non si sa mai che siano tornati da marte, che si omologano tutti in  “Nozoskin”.
E se non affogano, …li affoghiamo noi. Anzi no, con l’aiuto dei Nozoskin organizziamo un servizio revival di kapò: che si affoghino tra di loro che non ci sporchiamo le mani. Anzi, noi le mani così ce le laviamo.
Oh, Claudio : eravamo in piazza Selinunte, tu sei finito su Marte passando in gommone sui Navigli. Se non ti spiace potresti tornare qua che c’e’ un racconto da scrivere ?
“Vaffanculo…”….vabbe’. Mo torno.
Allora, mentre ero su Marte, piazza Selinunte si e’ riempita.
Ci troviamo tanti banchetti intelligenti, il palco musicale, una centralina di rete forse dell’Enel che chissà come ci imbordellerà il DNA in queste poche ore che ci stiamo vicino. A proposito: ecco, adesso so da dove arrivavano le posidonie mutanti.
E poi tanta gente, ma non tanto tanta perche’ quanta, ma soprattutto tanta perche’ alquanta varianta in più di cinquanta per niente affranta e nemmeno finta ma molto attenta a seguire con grinta come in attesa di infante nato da incinta con un po’ d’onta che tutti sgomenta, forse pure santa.
Anche questa e’ comunicazione, se conosci l’effetto esposizione e quello di associazione, puoi stimolare l’imitazione e mostrarti a tuo agio in mezzo al disagio di gente perdente, ma almeno in quel momento gaudente.
Naturalmente, non lo devi fare per calcolo ne attenderti un obolo o far l’arruffapopolo ma puoi farti tu bandolo che sbrigli la matassa delle idee della gente in modo gentile, impercettibile, semplicemente lampando la mente di chi fosse demente che diventi vedente.
Insomma, metaforico bombarolo senza tritolo ma con molto bolo che non faccia da abbindolo e non rilasci alcun bossolo risvegliando chi e’ bigolo solo con la presenza; e che “solo” !
Mi commossero due episodi, oltre a un musico malato che intonava un incongruentemente incomprensibile “io sono pazzo”. Vabbe’ se uno se lo dice da solo si vede che e’ vero!
Il primo episodio: le suore. Cuore in giuggiole alla loro vista. Alla festa tutte in pista, le guardai con orgoglio per la tonaca loro, veste di monaca che per la cronaca vidi elegiaca e che mi conduca a confessione pubblica.
Educato di chiesa, prima ancor che italiano, un pochino africano come pure, afghano, cubano, e più in generale di genetica empatica con chi soffre anche fuor d’Africa, vederle alla festa mi destò la testa per mi far ricordare quanto io sia cristiano. Profondo rispetto per tutto ciò che tiene insieme questo mondo, religione in prima configurazione. Ammirazione sincera per la Chiesa intera che io vedo somma organizzazione sintonica con una passione sociale che non posso evitare di sognar comunitariamente comune, e che direi comunista se non vi producesse una svista. O cattocomunista, ancora più svista, ma che rende bene l’idea di un “crasi idealista”.
Tornando in piazza, il discorso e’ che Selinunte e’ e ha un anima proletaria, e alla festa erano presenti proletari di tutti i tipi, molti con al seguito proprio la prole della loro etimologia.
Un prolino, che un giorno diventerà proletarino e poi ario, ad un tratto mi avvicina. Faccia da scugnizzo napoletano ma tzigano. Pelle scura e capelli rossi. Mi guarda e mi fa : “ma tu sei un attore, io ti conosco”.
Io rispondo verità profferendo la parola no.
E i suoi occhi vivaci iniziano a calcolare. Mi chiede che telefono ho. E io rispondo che ho una certa marca.
Lui mi chiede di farglielo vedere, e io non posso non farglielo vedere perche’ mi sembrerebbe discriminatorio. Valuto che non scappa, per una certa empatia negli sguardi.
E infatti lui me lo restituisce. Poi di botto mi chiede quanto costa il mio cane. Domanda a sorpresa piuttosto curiosa anche stizzosa e un poco altezzosa che richiede una chiosa che ci tronchi la prosa scivolando accidiosa prima che diventi angosciosa.
Rispondo che me lo hanno regalato. Comunico in tal modo rispetto per la sua condizione di materialità inferiore alla mia. Vale  a dire che evito di tirare uno schiaffo in faccia alla miseria. Certe volte, quasi tutte, la comunicazione ha bisogno di essere diretta, evitare giri di parole. Se non lo fa molto spesso e’ perche’ vuole manipolare. In gergo tecnico la chiamano proprio ideativa confusa. E’ una tecnica di manipolazione scientifica. Nasce lei confusa e così ti si innesta dentro ai pensieri, replicandosi per confondere te.
Ma lui, il mio maestrino prolino, invece mi promuove.
Mi spalanca un sorriso e mi inizia a fare un sacco di domande su chi siamo, perche’ siamo li, cosa sono i banchetti e così via.
Si vede che vuole capire un mondo diverso dal suo, con tutta la voracità di una giovane fervida mente ancora pulita.
E io mi metto a rispondergli, anche affettuoso, perche’ il ragazzo mi ispira simpatia empatica.
Poi fa per andarsene, ma si ferma subito pensieroso.
Nel banchetto di fianco a noi si vendono biscotti pubblicizzati anche con un cartello scritto in arabo.
Lui si volta verso di me e mi dice, come se fosse lui mio padre: guarda che fate una figuraccia perche’ il cartello e’ sbagliato.
Io lo ringrazio, sorridendo dentro di me, e penso immaginifico: “Houston, contatto avvenuto. Almeno in Selinunte non siamo più alieni”.
E poi penso che la comunicazione e la sociologia e probabilmente tutto il resto si fanno prima di tutto per strada.
Ma se non ci sei nato, per strada, se vuoi che ti parli e che ti insegni, almeno ci devi andare.

“San Gennaro, San Gennaro, fammi vincere alla lotteria…..”
“San Gennaro, San Gennaro, fammi vincere alla lotteria…..”
“San Gennaro, San Gennaro, fammi vincere alla lotteria…..”

San Gennaro (spazientito): “figlio mio io te facisse pure vincere, ma tu ‘o biglietto almeno t’o vuo’ accatta’?”