sabato 29 maggio 2021

2021 05 27 - Disordinariamente

  

 

Cloeconomie-Antologie Les Claufrenies-Magie Proesie Sofie Teorie


Disordinariamente


Antologia di vita disordinaria



1.     Sommario. 1

2.     Disordinaria. 2

3.     Esordio. 4

4.     Infante. 5

5.     Crescente. 6

6.     Educando. 7

7.     Cocale. 9

8.     Botte. 10

9.     Lavorante. 12

10.      Libertà. 14

11.      Malattie. 15

12.      Spezzature. 16

13.      Nemesi 17

14.      Tappezzerìe. 18

15.      Malpensiero. 19

16.      Carmapasso. 20

17.      Nuovomondo. 21

18.      Manìa. 22

19.      Manicomio. 23

20.      Vinili 24

21.      Verbo. 25

22.      Amore. 26

23.      Creazione. 27

24.      Donizioni 28

25.      Synfisica. 29

26.      Neurodo. 30

27.      Multifrenìa. 31

28.      Risonanza. 33

29.      Simmetrìa. 36

30.      Predicazione. 38

31.      Mammuth. 39

32.      Ho fatto l’0v0 : scheggia di follia. 41

 

2.             Disordinaria

Perche’ scrivere questa cosa.

Vuol anche dire il contrario di ciò che sembra.

Tante vite vissute, nell’insieme fuori dall’ordinario, ma dense di ordine significato intrinseco.

Il senso.

L’idea me la ha data un nuova sorellina che la vita mi ha portato, in evidente segno di ricambio dell’adempimento del senso del dovere instillatomi di famiglia.

In realtà non e’ il senso del dovere degli Aroldi.

E non e’ nemmeno dovere.

Solo senso.

Siamo, o almeno io credo di avere capito, sono, fatto così.

Un fiutasenso.

E appena trovato, avanti un altro.

Così mi sono ricordato dell’unico di due libri regalatomi da mio padre.

La vita come compito.

Viktor Frankl, lo psicologo nei lager.

Avviene ad un tratto quella che egli stesso definisce una "svolta copernicana", sia per ciò che concerne la psicoanalisi, che nella sua stessa vita.

Prendere consapevolezza di come la motivazione principale dell'uomo non sia il principio del piacere, né la volontà di potenza, né il senso del dovere, bensì la volontà di significato, il desiderio o la missione o la vocazione, di cercare e trovare un senso, uno scopo, un significato, per la propria vita, e per i suoi frattali componenti di base.

Frattali, si.

Non esiste una vita sola.

Ce ne sono tante che poi si riaggregano in quella a cui noi diamo del “La”

Sono infinite, se si abbandona e supera la convenzione del tempo.

Vivere significa dunque prendersi la responsabilità di rispondere esattamente ai problemi, fatti, o eventi, che l'uomo si trova di fronte e di adempiere, nel rispetto dei canoni esistenti, ad essi come compiti che la vita gli pone.

A me e’ capitato di riceverne tanti, di compiti e di vite.

Ciò che mi fa pensare che ci sia un motivo. 

Ma perlomeno bisogna iniziare a raccontare    

https://cloeconomie.blogspot.com

https://cloeconomie.blogspot.com - Antologie  

Mi diceva sempre mio padre : “l’ottimo è nemico del buono” .  

3.             Esordio

Ah, mh, ah, mh, ah.

Splash.

Dest, sinist, dest, sinist, dest, sinist.

Mhhh.

Così’ non si va da nessuna parte.

Su, giù, su, giù, su giù.

Bong.

Bong, bong, bong.

E come si entra?

Sping, sping, sping.

Splat.

Ohhh.

270 albe.

L’alba finale natale si narra che ci presentammo alla clinica del dottor Buzzi, o non so che.

La suora che aprì disse solo: “il dottor Buzzi e’ morto 10 anni fa”

Io sentii amniotico mio padre  imprecare, e poi chiosare cotanto principio con un sarcastico “cominciamo bene”.

Era così lui.

Poche parole, rasoiate e  tagliole.

Mia madre non mi parlò mai  del parto.

Quel mare di promesso dolore.

Ala fine pare che  nacqui io.

Sempre col dubbio di essere nato in provetta, o benevolmente adottato.

In un senso o nell’altro, una botta di culo, si dice nel ben pensiero.

Ah, provetta o no avevo quindi praticamente già un anno, come tutti dopo lo splat.

Precoce per natura, mi affacciai a questa cosa chiamata vita senza sapere quanto disordinaria sarebbe stata.

Disordinaria alla latina.

Con la a da plurale.

Ancora mi cihedo che gli aveva detto il cervello ai miei progenitori.

Come gli era venuta l’idea.

Che a guardare le disordinaria, per lungo tempo mi parve un ordinario processo ideativo di idea del cazzo.

Potevo non avere nessun problema da pormi, a restare un’idea che è soltanto un’astrazione, e invece me ne son ritrovati a stormi.

Non è esattamente vero.

Tra le tante disordinaria bisogna scindere un prima e un dopo, all’incirca alla mediana del tempo che ci  e’ dato e andato finora.

Che poi il tempo non esiste, quindi sto propinando un’immagine degna dell’idea del cazzo dei miei.

Eh, ‘sto cazzo.

Sempre li a disgiungere i cugghiuni.

Funzione primaria di radiatori,

disgiunti per far passare i bollori,

ti concertano l’arnese,

che ti condurrà in  pretese.

Comunque il senso e’che mi poteva andare molto peggio.

Ciò di cui ringraziare e non dileggio. 

4.             Infante

Non so da quando uno si dovrebbe cominciare a ricordare dei ricordi.

Io ricordo poco, se non un generale contesto di infanzia dorata da piccolo principe.

Tipo l’infanta reale.

Vestitini, giocattoli, cameriere, istitutrici, cani, vacanze, mari, montagne, feste, prelibatezze, abitudini.

Ma tutto molto vago.

Come se tutto quel mondo non  mi appartenesse e io ci fossi capitato li per caso.

Ricordo le rare presenze di mio padre che mi portava all’asilo a piedi, passando davanti all’istituto dei bambini ciechi, da cui proveniva una per me incomprensibile musica, come se il cieco fosse per forza pure sordo

Qualche anno dopo, alla centesima lezione privata di pianoforte, forse pensando ai bambini ciechi, dissi a mio padre di farmi smettere, tanto non ero buono. Acconsentì. E il lussuoso pianoforte finì dai bambini ciechi, dove potesse sentirsi amato e al suo posto.

Ricordo interminabili sudorose passeggiate al mare, che dovevo fare a piedi con l’istitutrice, perché faceva bene. E i miei che passavano in macchina salutando gioiosi al pensiero di contribuire a farmi crescere sano e forte.

Una vacanza in montagna, intorno ai 10-12 anni la passai chiuso in camera a leggere di filosofia, con grande apprensione dei miei che non capivano che malattia avessi. E perché non andassi a sciare.

Sempre in montagna, ricordo che guardavo atterrito il collegio dove mi mandavano avendo delegato la mia educazione a dei professionisti, di stampo quantomeno autoritario.

In sintesi, mi sentivo tipo come un’infanta già infranta.

Eppure tutto ciò che sembrava distanza, in realtà creava dipendenza.

E io restavo sempre più attaccato alla diade creata dai miei, che tendeva a diventare triade solo come appendice.

In più io non sono mai stato competitivo, proprio non ci sono nato, non ne ho mai visto il senso. E di conseguenza non ero nemmeno conflittualmente reclamante. Anzi, a reazione inversa, era un reciproco “se non avete urgenza della mia presenza, io nemmeno”.

E mi vendicavo nel rifiutare il loro modello da vincenti, ad esempio negli sport. Quando facevo le gare di sci, arrivavo a mezza corsa dove erano tutti appostati per applaudire, e io frenavo e mi fermavo. Come a dire, cosa cazzo urlate, la gara e lo sciatore mica sono vostri.

Cresciuto in un mondo troppo dorato, mi dava gratificazione già allora solo l’eccesso.

In effetti la sublimazione della loro idea di vita era il sempre di più.

Così, quando a 15 anni mio padre mi mandava a Londra a studiare l’inglese, mi ci mandava con il jet privato.

Il ritorno era tronfiale.

Dovevamo andare al Sud, a Maratea, e lui mi faceva portare dall’aereo privato, con tanto di doppia hostess, all’aeroporto di Lamezia. Striscia di asfalto nel mezzo del nulla, dove l’unica cosa che risaltava era questo principino servito e riverito depositato nell’unica Mercedes blu di quella zona di Calabria, per altro nota per la ‘ndrangheta, ciò che mi rendeva di sicuro figlio di un affiliato.

Uh, come mi e’ rimasta questa sensazione!

Paura dei rapimenti a Milano.

Libertà d’esibizione in Calabria.

Girava armato, mio padre, oltre alla ampia collezione d’armi, era uno di quegli uomini che si poteva, non solo permettere di girare armato, ma pure di sparare ad uno scippatore in centro città.

Aveva cercato, anche con un certo successo, di instillarmi la passione per le armi. 38, 44, 357. Mi portava a fare il tiro al bersaglio nei boschi o in mezzo al mare. E alle lucertole. Perché “devi imparare a sapere cosa vuol dire togliere una vita”.

Dopo un po’ che io mancavo le lucertole, non so se apposta, si arrese come con il pianoforte, e la carabina smontabile calibro 22 sparì dalla mia vista e portata.

Tanti anni dopo ricollegai questi e altri eventi e pensai alla nemesi.

5.             Crescente

Crescere. Adolescere. Adolescenza. L’ultima fase dell’età evolutiva, interposta tra la fanciullezza e l’età adulta.

E chi l’ha mai vista ?

Per me e’ quel periodo tra l’infanto e lo studiante.

Anche in questo caso pochi ricordi.

‘Sto fatto deve essere legato al fatto che gli eventi determinanti nella vita in realtà sono molto pochi.

Forse ricordo solo quelli, come segno di vecchiaia incipiente.

Ma ci vuole scienza ad invecchiare senza maturità.

Ricordo bene solo i traslochi.

Così frequenti tra Roma e Milano per esigenze di lavoro di mio padre.

Era sacro, il lavoro di mio padre. Così tanto da restare esoterico,

Nel vero senso, scoprirò anni dopo.

Vivido e’ il ricordo dei camion gialli di Gondrand.

E la vista dell’andirivieni di cartoni, con quel loro tipico odore di presagio di muffa.

Sta di fatto che non ho avuto la normale crescenza tipica delle prime età.

E sono rimasto sempre solo, con la dipendenza da mio padre a farmi compagnia.

Nel frattempo mia madre faceva da tappezzeria.

Tutta dedita ad assecondare le esigenze del marito.

Dietro ogni grande uomo…

Almeno così si dice.

Il punto e’ se fosse davvero grande. O chi dei due.

E se ci fosse bisogno di tutto quell’asservimento familiare.

Ogni tanto compariva un cane a farmi compagnia.

Tempo un paio d’anni spariva con varie motivazioni, anche razionali.

E io tornavo solo con me stesso, come il cane, ma con il rinforzo sinaptico della dipendenza paterna.

Comunque a detta di tanti ho avuto una giovinezza solinga ed in definitiva un po’ trista.

Ma in realtà io non me lo sentivo, ne allora ne adesso.

E anzi tutto preso dalla dipendenza paterna e dall’impresenza materna, mi sono sempre sentito amato e soprattutto considerato privilegiato.

Forse per reazione dell’inconscio, era sublimazione monetaria.

Mio padre era materico, per non dire monetarico, appunto.

L’imprinting me lo aveva dato da infante.

Siringoni gialli a ripetizione, ancora adesso col dubbio che non fossero vitamine, ma mutazioni genetiche che determinarono il mio futuro venturo.

Appena il professore finiva ogni siringone, sotto lo sguardo vigile della diade che controllava, mio padre si avvicinava al letto e mi metteva 100 lire sul comodino.

Ricompensa e premio a suo giudizio di importanza tangibile.

A diciotto anni mi regalò il mio primo orologio, come augurio di collezionarne a fiotti come faceva lui.

Fuori luogo il valore: diecimila euro d’oro fiammante, che io misi subito con orgoglio scolastico.

Da che ero il solingo sfigatino, divenni all’istante un idolo di classe della futura Milano da bere.

Inutile dire che la scuola era quella della alta borghesia cittadina.

Oggi direi un concentrato di omologata puzzoneria dalla scala di valori castamente deviata.

Ebbi il mio primo amore estivo, travolgente.

Dopo tre mesi finì, come quello per i cani, perché si tornò in città.

La disperazione del distacco e della perdita mi fece continuare a piangere e smettere di mangiare e i miei posero rimedio alla loro maniera: un professore strapagato mi diagnosticò una ovvia depressione. Passò. O me la feci passare, non so. A diciotto anni ebbi il mio secondo grande amore. Dopo un anno di terrore che finisse la lasciai io, con ancora il vivido  rimpianto di avere perso il treno della vita. 

6.             Educando

Università.

Ovviamente quella obbligatoriamente seguente la scuola “da bere”.

Università Commerciale Luigi Bocconi.

La scuola dei soldi.

La “creme”.

Con tanti saluti al desiderio di filosofia o ingegneria, la seconda in effetti evidente condizionamento paterno, che ingegnere lo era diventato da eroe in tempo di guerra, contro il volere del nonno pasticcere, studiando mentre si manteneva facendo l’autista.

Mestiere che lasciava lunghe attese in cui acculturarsi.

Almeno questo e’ quello che raccontava lui.

Mi gelò di rasoiata quando mi disse, milionario, che se volevo finire in mezzo ad una strada potevo fare filosofia.

Terrore antimonetarico.

Per ingegneria invece non ero abbastanza intelligente.

La dipendenza apre le porte alla manipolazione.

Insomma, dovevo fare i soldi, come aveva fatto lui che la guerra e la miseria l’aveva provata.

Ed in effetti non avrei saputo come dargli torto, se non argomentando che in famiglia di soldi ce ne aveva già portati abbastanza lui per numerose generazioni.

Ma all’epoca non mi venne in mente.

Di mia madre non seppi mai nulla.

Qualcuno mi disse che aveva studiato lettere, ma non ne diede mai prova, sempre intenta all’attività di eminenza grigia di sfumata influenza, ma forse solo in apparenza.

Quando si ammalò la prima volta, anamnestica depressione anoressica, e mio padre pensionato milionario se ne lamentò, io gli dissi aspro che lei gli aveva permesso di fare la vita che aveva vissuto.

Adesso toccava a lui curarla.

Incredibilmente lo fece, e io mi sentì per la prima volta non dipendente, seppur non indipendente.

Vivevo al piano di sopra.

In quella che per un ventenne era una reggia, appositamente comprata a fini di dipendenza.

Nacque un patto implicito.

Io non vi lascerò soli, come in effetti erano, privi di parenti e amici mediolanensi, ma nemmeno allogeni.

E non lo feci mai, ne nelle malattie ne nelle morti.

Ero uno di parola, io.

E poi c’era il senso del dovere degli Aroldi’s. Ma la realtà era che quello era il compito per cui ero fatto.

In cambio, soldi, privilegi, benessere e accessori vari.

Accudirli, inorgoglirli e accompagnarli era il corrispettivo.

Si rivelò un patto col diavolo, quando scoprii quanti soldi c’erano e mi iniziai a chiedere da dove venissero.

Ricordo una puttana all’angolo sotto casa, rossa focata. Anni dopo la reincontrai. Era Ketty, la vedova Turatello, che mi raccontò che conosceva bene mio padre, si frequentavano e lui era davvero il diavolo.

Furono i primi scorci di una seconda vita, nell’ombra della mano destra che non sappia cosa fa la sinistra.

Comunque tornando all’università, arrivò il momento della rivincita.

A dire il vero era una sconfitta.

Scoprii che mio padre aveva pagato, molto, un noto professore per farmi fare la tesi con lui in modo che potessi affiliarmici e fare tanti più soldi.

Ma questo avvenne dopo.

La rivincita fu un feroce empito di indipendenza. Voi alla tesi non ci venite.

Mi nascosi dietro un “non ho fatto niente di più del mio dovere. Non c’e’ niente da festeggiare”.

Uscii con un dignitoso 108, ma non con il 110 e lode che mio padre aveva comprato.

Son sicuro che mi regalarono qualcosa, ovviamente di valore. Ma io non lo ricordo.

7.             Cocale

In principio fu l’anfetamina.

Me la presentò un compagno di studi.

Un pizzico nel caffè e la giornata filava veloce.

Poi una sera mi invitò ad una festa a casa della figlia del primo safarista italiano.

Un ricco.

Trofei di morti in ogni dove, con tanto di articoli di giornale a celebrarlo appesi alle pareti.

Anni dopo in Africa ci andai per davvero.

Vidi tutto vivo, e mi tornò spesso in mente la barbarie dell’onnipotenza della ricchezza.

Comunque alla festa incontrai per la prima volta la cocaina.

Mi suscitò desiderio sessuale.

E aprì le porte all’uso ludico, come si dice, in effetti per accentuare l’effetto di voglia di scopare.

Sulla via del ritorno mi fermai da un travestito, attratto dallo sfavillìo della sua Jaguar bianca.

Fosse stato su una Panda probabilmente non mi ci sarei fermato.

Oltre a un pompino, mi offrì della coca.

Erano le 6 di mattina e mi convinse con un assertivo “senza, domani non ce la fai”.

Scoprii che il desiderio sessuale e’ un’idea, ma poi il miglior amico dell’uomo ne ha un’altra.

Ma non sempre.

E scopare “in bamba” diventò il mio modo di cercare la non solitudine, che evidentemente mi aveva accompagnato surrettizia per anni, e simulare una sorta di artefatto d’amore.

Quello vero perso già due volte.

Col travestito diventammo amici.

Come Ketty la rossa era “un personaggio”.

Di famiglia buona, ripudiata da trans, mi insegnò finanza, backgammon, moda, eleganza e tante altre cose che aveva imparato a sua volta dai tanti clienti importanti che aveva.

A suo modo era infatti una celebrità.

E ci scegliemmo a vicenda.

Io ricevevo esperienze, oltre alla coca naturalmente, lei l’attenzione di una famiglia “bene”.

Epiche le feste nel mio castello dorato, dove alla fine finivo immancabilmente a scopare.

Divennero celebri le staffette.

Escort a ricambio a ciclo continuo.

Una volta 3 gnocche mi lasciarono un fascio di fiori enorme per il mio compleanno, tra le risate compiaciute del portiere del condominio perbenista, che invece non rideva per niente.

Quando la incarcerarono per spaccio, l’avvocato mi chiese aiuto perché nessuno dei suoi clienti voleva essere immischiato.

Io le feci avere un po’ di soldi, naturalmente.

Mi chiese se poteva venire a vivere da me qualche settimana. Non aveva dove andare. Mi nascosi nella vergogna degli altri e dissi di no

Qualche settimana dopo si suicidò.

I soldi evidentemente non guariscono le ferite.

Mentre ti continuano a far scopare.

Il che, bisogna dirlo, era una pratica sessuale niente male.

Pure con il senso di colpa.

Ricordo che un giorno poco prima, mi chiese di portarla dai suoi spacciatori perché non aveva più la Jaguar.

Ci ritrovammo a Baggio, in una fetida crack-house tutta bottiglie, film porno e mucchi di vestiti da lavare.

Tutti che fumavano in base. Tanti che scopavano

Lei mi lasciò un’eredità preziosa e quando mi offrirono di fumare scaraventò la bottiglia contro il muro e mi ammonì severa : “quella non la toccare mai, ti ruba tutto fino all’anima”.

Non l’avrei ascoltata, fino a molti anni di “tiri” e collassi dopo. 

8.             Botte

La chiamano base libera.

Intendono dalle impurità, presumo.

Ma se lei e’ libera, tu diventi schiavo.

Proprio come mi aveva ammonito, Edy, il travestito.

Cocaina pura.

Ammoniaca, il bicarbonato e’ roba da dilettanti perché non spalanca gli alveoli.

Cucchiaio.

Bollire.

Sale a galla l’olio essenziale.

Lo fai asciugare.

Intanto prepari la bottiglia.

Cannuccia sul lato.

Stagnola bucata.

Cenere sulla stagnola.

Palletta di base sulla cenere.

Accendino.

Fuoco alle ceneri.

Nuvola nella bottiglia.

Aspirare a pieni polmoni.

20 secondi.

Espirare.

E: cazzo che botta.

Cercare un buco per l’uccello.

Qualche minuto.

E ripartire.

Bisogna dire che ricco ero ricco, ma non tanto quanto sarei diventato.

Per cui avevo un limite.

Quando erediterò arriverò a 20 grammi al giorno.

Settimane senza mangiare e dormire.

Collassi da tracollo fisico.

Sensazione netta di svanire di morte.

Anime buone, più o meno di passaggio, a tenermi veglio.

Crollo nel sonno.

Risveglio fuori da qualsiasi tempo

Ombre di morti sfrecciano intorno..

Senza idea di ore o giorni passati in quella specie di coma.

E ripartire.

Ci ho perso il terzo grande amore della mia vita. Forse l’ultimo.

Ad un tratto uscì dalla porta e non tornò mai più.

E per uno che cercava la non solitudine e’ un giusto karma.

Ma comunque tutto questo succederà anni dopo.

Per questo periodo poteva solo essere la premonizione di Edy.

Ma quello che conta e’ il “crescendo”, come in musica.

Si all’adagio, fino a che si da fiato alle trombe a passo di carica.

E la marcia trionfale non la puoi fermare.

Ma la devi eseguire tutta d’un fiato.

Quando finisce, e’ perché e’ giunta l’ora che finisca.O perché sei morto.

Io morto non sono, e forse c’e’ anche un motivo.

Un messaggio da portare, che il cervello lavato di ammoniaca non ha perso bruciato.

Ma ha aperto percorsi neuronali altrimenti chiusi ai canali percettivi tradizionali.

O almeno così io credo.

Oppure e’ solo che schizofrenico sono schizofrenico.

In principio bipolare, che però vari neuro scienziati mi hanno disgiunto dalla cocaina, in base o meno.

9.             Lavorante

All’uscita dalla Bocconi mi aspettava al varco l’impiego che mi aveva comprato mio padre.

Ebbi un immediato secondo empito di indipendenza e a briglia sciolta galoppai altrove purché altrove.

Il commercialista proprio no. Chissà quanto tempo ci mettevo a fare i soldi. E che noia.

Come prevedibile, quindi, bastiancontrariai; adesso che avevo la maggiore se non adeguata età potevo.

Caso volle che avevo un cugino che mi piazzò l’alterativa nell’ufficio finanza strategica della all’epoca maggiore azienda italiana. Anche stavolta venni piazzato per gnosi, dunque.

Era roba grossa. Compro, vendo, fondo, sfondo. Navi, camion, silos, magazzini.

Si trattava di aziende, per cui ogni volta un certo senso di potere mi gratificava dell’inferiorità indotta e percepita nei confronti di mio padre. Spostavamo fabbriche, migliaia di lavoratori, montagne di soldi e ogni volta muovendo soldi a palate.

Curiosamente ci misi tre sole settimane a capire una profonda verità e cioè che i soldi non esistono, alla faccia di un ventennio di educazione, e che quando esistono spesso stercano.

Io preferii fabbriche, terre e operai, roba vera da economia reale, che d’altronde mi era stata inculcata in anni di economia aziendale, a dispetto delle intenzioni monetaristiche di mio padre.

Mi infastidiva parecchio quella teoria dell’appropriazione del plusvalore, che rimase sempre presente nelle mie riflessioni di redistribuzione. Quelle che solo un ricco può e dovrebbe permettersi di fare.

Scappai dalla finanza soldifera e mi misi ad avviare l’industrializzazione dell’invenzione detta biodiesel. Fertilizzante per l’agonizzante agricoltura europea, pure meno inquinante del diesel petrolifero. Costruimmo impianti, assumemmo lavoranti, cambiammo leggi, ma la cosa più straordinaria che ricorderò per sempre erano le fioriture primaverili gialle dei campi di colza sparse in tutta Europa per direttiva comunitaria scritta recepita da noi. Avevamo modificato la politica agricola comunitaria. Altro che soldi, pensando a mio padre.

Ego semino, ergo sum.

Purtroppo me ne andai dopo quattro anni, manipolato dal gene monetaristico. Mi pagavano troppo poco. Di quel passo mio padre non l’avrei raggiunto mai. Non immaginavo ancora il gran segreto, per cui a lavorare onestamente monetaristico non ci si diventa.

Mi ritrovai per la seconda volta in agroindustria, stavolta a produrre e vendere concimi. Sempre sterco, quindi, ma quello da cui nascono i fiori, non come dai diamanti.

Anche li però il demone monetaristico si reimpossessò di me e dopo due anni senza aumento di stipendio veleggiai altrove.

Pensai di avere sbagliato settori. Dalla terra non crescono i soldi, come imparò persino Pinocchio, e mi ritrovai nella prima società italiana privata che vendeva internet. Volevo sapere cosa era, e poi l’innovazione e’ il motore della grana. Dovevo essere nel posto giusto. Invece niente. Sempre stipendio da fame, relativa.

Scoprii che il modo più veloce di aumentare il salario era quello ci cambiare azienda molto velocemente. Una volta all’anno e un 30 percento in più lo si portava a casa ogni volta.

E poi ero molto bravo, e in un anno ribaltavo situazioni a tutti apparenti incancrenibilmente irrimediabili.Proprio questo fatto, però, mi generava frustrazione da appropriazione di  plusvalore, che quelli si tenevano ben stretto, anche accaparrandosi i meriti, proprio da capitalistici borghesucci.

E io, pur ricco di famiglia e quindi di tempo, mi sentivo sempre proletario sfruttato.

Ovviamente c’entrava l’educazione ed in particolare quel senso di inferiorità instillatomi nella dipendenza dal modello paterno. Ma tanto e’, e così me ne andai un’altra volta. Non sapevo che sarebbe stata l’ultima.

Mi trovai finalmente in banca. La fabbrica dei soldi. Mi diede per ben due anni, che per me erano tanti, illusione di prospettiva di ricchezza oltre a consapevolezza di cosa siano e come si “producano” i soldi.Poi successe il fatto che aspettavo da sempre. Una di quelle svolte di vita che cambiano tutto.

Dopo relativamente lunga malattia mio padre morì. E io fui consapevole che avrei ereditato.

Il capo borghesuccio si permise di dirmi che dovevo mettere mia madre in un ospizio. Ci misi 30 secondi a prendere un foglio di carta, a scriverci sopra solo una parola e ad andarmene sbattendo la porta.

La parola, senza sintassi e accessori di sorta, era una specie di categoria a priori da sempre li ad aspettare di essere colta. “Dimissioni”. Ero libero. Restava solo mia madre, malata anche lei, nella sua consueta ombra.

10.         Libertà

La morte di mio padre non arrivò come un’improvvisata. La notizia si. Ma per essere sincero, non mi colse nemmeno alla sprovvista, e non per questioni di età quanto per ordine “naturalia”.

Almeno così mi piacque credere.

Anche se forse la verità e’ che io l’avevo sempre attesa per essere libero e in ricchezza, la quale stessa e’ foriera di libertà.

Ma bisogna sapere che, a parte i collassi da coca, come gli infarti, a morire ci va il tempo che ci va.

Gradatamente si sciolse il patto implicito per cui in cambio di agiatezza io non li avrei lasciati nella solitudine in cui mi avevano messo loro.

Patto che prevedeva, tra l’altro, che ogni domenica io li invitassi a mangiare a casa mia, che in realtà era loro, e che gli stava giusto al piano di sopra.

C’era un bel terrazzo, oasi di pace nella frenetica Milano da bere, come fosse un Cynar en piazza del dòm.

Io cucinavo per loro, ma mica tanto, figurarsi. Lui arrivava ogni volta carico di caviale, tartufi, champagne e altre prelibatezze. Le più costose possibili: se son care saran pur buone.

Ricordo come fosse l’unica persona che io avessi mai visto lasciare 100 euro di mancia al commesso del salumiere. Ogni domenica era festa. Per noi e per tutta la sua cricca di servitori di cui si era circondato per potere esibire lo sfarzo del successo e a cui elargiva appena poteva.

Mi sarebbe piaciuto pensare che lo facesse per gli altri, e forse era anche in parte vero, ma la realtà e’ che erano gesti di dominanza, come cibo avanzato tirato ai cani fedeli.

Ma  devo dire che per quanto fosse un continuo insulto alla miseria, quella senza plusvalore, era bello.

Ci ero stato educato, abituato, socializzato. Quello era il mio mondo, il mio tenore di vita, in realtà con poco stile, ma ben nascosto alla vista dalla nebbia dei soldi a pioggia.

Ad un unico patto. Faceva parte del patto implicito tra la sua concezione di bella vita che mi permetteva e la mia promessa di accudirli e accompagnarli.

Nel senso di fargli compagnia, quella a me mai concessa se non in qualche modo comprata. Genialità.

Devo dire anche che non era tutto così gretto.

Dietro un’anima da demone, il segreto, c’era anche una parvenza di animo gentile parecchie volte.

Forse aveva imparato a dissimularlo proprio dalla nobiltà di mia madre, che forse proprio a quello era servita e sposata. Insomma, se signori si nasce, non sono convinto che non lo si possa diventare, pur se impregnati di altrui signorili culti.

Mentre con grandi non funziona così. Ci sono uomini grandi e uomini piccoli. Ovviamente in mezzo anche uomini medi.

Una volta scoperto il cancro svanì la sua immagine di grandezza.

Lasciò il posto alla più delle banali paure, perdere ciò cui si era attaccato, la roba di cui si era riempito.

Non mi diede consigli, pensieri, segreti, tutto concentrato sulla proprietà privata della sua morte.

Una sola volta ci scambiammo un ti voglio bene.

Eravamo intenti sul libricino su cui teneva i conti dei suoi milioni che non aveva nemmeno pensato di spiegarmi. Dovetti chiedere io cosa ci fosse e cosa dovessi fare, altrimenti fosse stato per lui la sua onnipotenza se la sarebbe portata nella tomba.

Talmente rimossa l’idea che gli avessero rubato l’onnipotenza. da non pensare nemmeno alla totipotenza della riproduzione.

Morì da borghese, impicciolendosi mano a mano che il cancro imperava, impreparato all’unica cosa certa a cui avrebbe dovuto prepararsi. Ma come detto era troppo materico per pensarci. O forse credeva davvero di avere fatto un patto col diavolo.

In realtà fu il più grande insegnamento che mi diede, anche se a sua insaputa, forse per non averlo pagato.

In cambio lo feci seppellire nella tomba di famiglia, che si era comperato anni prima, insieme al suo catenone di oro e rubini da rapper mafioso, pieno di ninnoli superstiziosi, e all’anello sempre di rubino che si era fatto incidere su commissione, appropriandosi pure di quella purezza rubizza, con sopra la testa di un capo indiano. Augh, grande papo. 

11.         Malattie

Torniamo indietro. Vivere tante vite vuol dire in contemporanea.

Dicevamo che la morte di mio padre non mi colse all’improvvisata.

Semmai una sua certa piccolezza. Ma io ero stato abituato alle malattie, ai medici, agli ospedali, ai miei collassi e infine avevo anche vissuto la morte peggiore, che cerco di non rimuovere mai dalla mia coscienza.

Non toccatemi i bambini.

E’ quella che mi ha segnato, e decenni dopo insegnato, che ci sono cose che di sicuro hanno un senso, come tutto, ma non nel mondo fisico.

La fede e’ un dono e io l’ho ricevuto, a modo mio e per niente gratis, solo tante vite dopo.

Ulrico e’ mio nipote. Morto a meno di dieci anni per un tumore al cervello nel reparto infantile dedicato di un  grande ospedale. Sempre sereno durante il ricovero, aspettava i suoi cannolicchi mentre lo curavano.

Sua mamma e’ la figlia di mia mamma, che già mostrava avanzati segni di depressione.

Mio padre intervenne a modo suo e la mandò via, a casa sua, perché da tappezzeria viziata non poteva certo soffrire.

Restò ovviamente mia sorella, e fummo delegati a rappresentare gli Aroldi’s io e la mia futura moglie.

Piazzati in un'altra città come una valigia per settimane, a svolgere il ruolo che nemmeno lui aveva il coraggio di ricoprire.

D’altronde mia sorella non era figlia sua e poteva anche fottersene. E così fece.

Mentre io avevo un debito da ripagargli. Non essere stato messo al mondo, no, quanto piuttosto essere una sua proprietà il cui debito era che dovevo servire a qualcosa.

Me lo disse pure, un giorno, a modo suo: “mi sei costato un miliardo” .

Io restai a vegliare fino all’ultimo respiro di Ulrico, e se oggi io sono io lo devo anche a lui.

Non fu l’unica vita di malattia, questa di Ulrico.

Con l’età i miei divennero cagionevoli, non solo psichicamente perché percepivano che il loro delirio di immortale onnipotenza riposto nella materica “robba” al cui possesso tanto attribuivano piacere, si era sciolto con la pensione di mio padre. “Sai, compravo petroliere adesso compro etti di prosciutto”, mi diceva.

E iniziarono ad ammalarsi come tutti i vecchi. Professori, ricoveri, ospedali. Enfisemi, infarti, anoressia, tumore.

Ma a turno. E io li curavo e accudivo e accompagnavo, soprattutto quando toccava a mio padre, essendo io il solo che poteva farlo.

Oltre alla mia vita normale, per 20 anni o non ricordo più, questo fu il mio compito.

Quando toccò a mio padre, fu un delirio di compito.

Prendere mia madre, portarla dall’altro alto della città in ospedale, andare in ufficio, andarla a riprendere, concordare coi medici di entrambi, riportarla a casa, farla mangiare.

Tutto ammantato in una aura di morte che ormai mi accompagnava ovunque, con l’unica cosa che mi dava sollievo che era l’oppio dei popoli del xx secolo, la cocaina.

Quando stavano bene, più o meno, bevevamo whisky e fumavamo tutte le sere all’aperitivo, chiusi da soli nella loro casa mausoleo celebrazione della loro malattia per la robba riconquistata. E la domenica al piano di sopra c’era il dì di festa. E raccontavamo, soprattutto io, la settimana.

Era bello.

Si, fu proprio un delirio quando si ammalarono da ricovero insieme.

Alla fine dimisero mio padre che mi disse : “Volevamo dirti che sei stato grande”.

Ma poi rovinò tutto aggiungendo “non ce lo aspettavamo”.

Mi rivelò un umile signore del circolo dei suoi protetti sempre scelti tra gli umili, impiegato usciere del posto dove lavorava, che parlava sempre di me pieno di orgoglio.

Che dire:  “non me lo aspettavo”.

Ma non e’ vero. E’ che io gli vedevo dentro, e questo non gli piaceva. “Tu disprezzi tutto quello per cui abbiamo faticato tanto”. Ma non era vero. Io giudicavo solo la misura. E’ quella mia natura di fiuta senso, ovvero significato profondo, che e’ natura e prescinde dalla volontà, e che mi impediva di vederlo, il senso.

12.         Spezzature

La conclusione di tutto un lungo percorso di vite e’ stata la rivelazione che tutto sia sempre stato solo per amore. Ma proprio tutto.

Dalla creazione fino alla colazione, tutto avviene per amore. E’ la forza che guida tutto. Ed e’ dominante.

E’ una forza fisica, la gravità credo ne sia il sintomo primario, che ho dovuto ricercare studiando e osservando per decenni assecondando la mia natura di fiuta senso.

Lo sentivo, fin da piccolo, ma ero stato condizionato a negarlo dalle troppe e costanti spezzature.

Così per lungo tempo mi sono dedicato all’intelletto. Ma non basta, almeno non ancora.

Per me parlo di amore, quello universale, quando parlo di synfisica, ricomposizione tra fisica e metafisica tale per cui si riconosce il metafisico in ogni cosa tutto attorno e dentro il tutto.

Ma ho dovuto studiarci vari anni, dopo l’illuminazione della rivelazione iniziale, proprio perché volevo ricondurle a qualcosa di oggettivo. Ci tornerò.

Adesso le spezzature, dopo quelle già raccontate.

Ho già detto di almeno due, forse tre, grandi amori, puri, totali, universali.

E’ un privilegio.

I più non ne conoscono che il cosiddetto primo, ma spesso nemmeno.

Invece io ho sempre avuto la sensazione che l’amore mi venisse a cercare, come fa con tutti non sempre disposti a riceverlo, in tanti modi.

Gli amori, i cani, le percezioni.

Eccolo qua, il senso profondo delle cose.

Il fiuta senso e’ il fiuta amore.

E il compito e’ fiutare per sé e per tutto, oltre il tutti.

Ma ripeto che prima bisogna studiare.

E per studiare intendo sofferenza, il dolore opposto dell’amore, con la abitudine alla quale si riconoscerà il contrario.

Oppure basta avere fede, che se depurata dall’iconografia antropomorfa geolocale che la circonda, e’ un dono, un infuso di essenza per tutti e per tutto.

Però per varie circostanze, ogni volta questa connessione con la forza universale mi veniva spezzata, il che probabilmente in 40 anni di privazione mi ha portato a razionalizzarne la rimozione in una sorta di parcheggio della speranza.

Dai e dai mi si era affievolita, svanita in apparenza, la percezione d’amore a cui sarò destinato come tutti.

Ci vollero 20 anni a ricucire le spezzature. Poi riesplose universale.

Con la sensazione di essere fatto apposta per amar la meraviglia, già a partire da una maniglia.

Nel frattempo, il mercimonio.

Matrimonio d’amore proprio no, celebrato mentre i miei erano in ospedale con tanto di giusto gran rifiuto dei parenti del mio lato a partecipare alla funzione. Ma senza il troppo convinto mio.

Naturalmente in attesa della fede, fu un matrimonio comunale, poco amoroso e assai contrattuale.

Una replica di quello genitoriale, ovviamente, con la mia recondita speranza che rendendola ricca si sarebbe presa cura della mia solitudine. Funzionò finché non arrivarono le malattie dei miei.

E poi la mia. Tradimento alla prima diagnosi di schizofrenia.

L’avevo detto che la rivelazione e illuminazione non sono gratis.

Una settimana dopo che ebbe promosso il ricovero coatto, venne in clinica mentre riuscivo solo a sbavare di psicofarmaci, e mi chiese la separazione. Milionaria.

Acconsentii al volo, per la sola sua domanda.

Spezzaturona.

E’ morta una decina di anni dopo per un tumore fulminante mentre io procedevo poco adelante tra psichiatrìe e semilibertà in cui mi aveva proiettato.

Ancora oggi per me e’ un grande gesto di amore quello che mi ha privato della sua esistenza, donandomi tanta sofferenza successiva, di cui io so essere grato. E mia figlia, che merita un capitolo a parte.

13.         Nemesi

Prima di parlare delle mie colpe bisogna ripartire dall’eredità e dal relativo mollo tutto, finalmente sono ricco.

Me lo sono meritato, ho rispettato il patto con i miei.

Ma c’era qualcosa che non tornava.

E per un fiuta senso era importante.

Da dove venivano quei soldi.

Avevo la netta sensazione che fossero sporchi, come tutti i soldi tanti sono sempre.

Non olet non e’ vero, piuttosto non videt.

E mi iniziò anche a venire il sospetto che molte delle mie spezzature fossero generate dalle colpe dei miei.

Ancora non pensavo alla mia di colpa, ma solo alla colpa da nemesi.

Avevo ragione, ma non era ancora il momento, il mio sarebbe arrivato dopo.

Prima dovevo sapere.

Allora mi iniziai a chiedere se non fosse questione di nemesi, ma fosse un dono, inteso altro dalla ricchezza.

E se li avessi ricevuti proprio per lavarli?

A conferma riceverò ancora delle sorte di preilluminazioni e mi dedicherò per lungo tempo a cercare di fare o concepire cose utili per tutti, fino alla conferma e dono supremo dell’illuminazione folgorante.

Che mi deviò in manicomio. Schizofrenia un cazzo.

Intanto emergevano parti di un quadro fatto di segreti di mio padre.

Chi fosse realmente.

Cosa volesse dire essere il braccio destro di un noto personaggio.

Perché girare armato

Perché sempre nell’ombra.

Che ruolo avesse avuto dopo la guerra e nella ricostruzione.

Come avesse lasciato incarichi ministeriali per la carriera da braccio destro e se solo per soldi.

Perché non si parlasse mai di politica, tranne che per incensare certi terroristi che avrebbero dovuto chiedere a lui a chi sparare.

A volte addirittura i  nazisti, che avevano ragione a voler gassare tutti i vecchi.

Insomma non si sapeva niente.

E io sentivo un empito di amore che mi diceva che dovevo sapere.

Fino a che un giorno qualcuno di affidabile mi disse che era un funzionario dei servizi segreti del Vaticano.

Ricollegai alte onorificenze, strani personaggi bancari, benedizione del Papa al funerale con tanto di citazione “che la mano destra non sappia cosa fa la sinistra”.

E mi documentai su questa Entità, fino a scoprire che finanziava guerre religiose, altre pratiche oscure e addirittura il dossier Odessa.

E fino a qui niente di nuovo.

Quello che trovai di nuovo era il come.

Si menzionavano esplicite le truffe con i derivati del petrolio. Mio padre.

Mi si ricollegò tutta una vita di storie.

Ripensai all’educazione ricevuta.

A cose citate in precedenza

A Ketty Turatello, mafiosa, che mi parlava di sedute spiritiche e che lui era il demonio.

E infine la più classica e palese delle confessioni.

Due giorni prima di morire, mi guarda e mi fa: “certo che ne ho fatte di porcherie in vita mia. Questa e’ la mia punizione”.

Non bastava essere la sua creatura, pure il confessore.

Lo feci, allora, e gli diedi la mia assoluzione.

Gli dissi di non preoccuparsi che non c’entrava niente.

A 72 anni, a morire, si e’ in perfetta media. Bassa, ma pur sempre media. 

14.         Tappezzerìe

Resta il fatto che resto solo con mia madre. Mia moglie non la ricordo nemmeno.

Quel buco nero di tappezzeria a cui cercare di infilare nutrimento anche a tradimento.

Un giorno all’ennesimo “non ho fame” io sbottai una protesta filiale.

Ma perché fai così, prima con papà adesso con me? Io sono qui apposta.

Occhi di gelo mi risposero che la vita non aveva più senso e che lei era sola.

Io non esistevo. E grazie tante al contratto di accudimento stipulato con mio padre.

Il fatto e’che non doveva avere avuto una vita felice.

Sempre a fare da vicecapo, nell’ombra. E prima ancora come ragazza madre sola nel dopoguerra.

Tutti bei razionali, fino al trauma terminale che l’avrebbe uccisa.

Non essendo riuscita a salvare la figlia, che si salvò anni dopo da sola, non riuscì nemmeno a salvare il nipote, morto bambino di tumore al cervello.

Abbiamo una certa storia esoterica in famiglia. 

Una sorella infine esorcizzata, un padre surrettizio demoniaco, una madre rivelata stregata.

Ricordo bene il matrimonio retard di mia sorella, con un angelo d’uomo, poi morto dopo un calvario di leucemia, e l’angioletto di figlio che correva per tutta la chiesa. Tutto inutile di fronte alla chiamata agli angeli del nipote.

Non me lo perdonerà mai, disse mia sorella. Ma se così fu si era sbagliata di soggetto, perché diventò lei perdonatrice.

Ricordo che quando parlo di metafisico in genere, lo faccio su base fisica, non parlo di generici influssi soprannaturali, ma di fenomeni naturali. Non vedo, non credo? Perché non guardi o ascolti.

Ma torniamo a noi. Morto di luglio, mio padre, mi dovetti inventare qualcosa e decisi da nuovo capofamiglia di portare tutti a Maratea. Noi, inclusa mia moglie e mia madre.

E loro, tutta la famiglia nera di Bernarda, la mia tata di infanzia di Capo Verde. Cinque negher in casa Aroldi.

Sciagura per cui serviva una fattura

Vincevano decisamente loro, e io avevo bisogno di vita attorno a noi, con doppia coppia di adulti e bambini e un angioletto down, negretta, perché in Africa non si abortisce.

Che lezione.

Compassione, no grazie. Accettazione, ma va cagare. Scompisciamento continuo, ecco cosa suscitava una volta  caduto il sipario dello stigma. Un genio di bambina di rapace meraviglia.

Ogni volta che si avvicinava a mia madre quella rivelava la sua vera natura.

Sciò, sciò, le faceva con il piede, mentre osservava furtiva quell’orda di negri che le avevano invaso la casa.

Non so se fosse sempre stata così, le tappezzerie dissimulano per natura. Ma non diceva niente.

Di sicuro la morte del nipote, unico angelo puro della sua stirpe, le aveva lasciato una rabbia verso il mondo tutto, che dissimulava fino a che non le scappava irrefrenabile quello sciò sciò.

Un giorno trovai semisepolta sotto una edera un bottiglia piena di pipì con un reggiseno avvolto attorno.

Chiamai istintivamente Bernarda che me la tolse dalle mani e mi disse di andare via.

Sciò, sciò, questa non  roba per voi bianchi.

Voi avete dimenticato. Ci penso io,

Tu vai via e non parliamone mai più.

Una macumba, insomma, chissà se di mia madre o contro mia madre. Il culmine sarebbe se fosse stata di mia moglie. Ora, anche se non vedo non credo, troppe occorrenze per essere coincidenze dovrebbero fare vedere che vedo. Anni dopo qualcuno mi disse che era una strega. Non so con quali poteri esoterici, ma mi mancava giusto quella.

Forse lo era diventata, vendendosi l‘anima al diavolo dell’ira per il torto subito, o la colpa della morte delnipotino

Dopo l’esoterismo di mio padre ecco l’evocazioni di mia madre. Era una cosa di famiglia quindi, che mi sembrò d’istinto una famiglia di cattivi, di cui io dovevo subire la nemesi.

E il contrappasso 

15.         Malpensiero

Malpensiero.

Tutto nacque da un malpensiero

Io che credevo di essere il buono, ero come loro.

Un giorno feci bene i conti.

Tra tutti gli ammennicoli e la corte dei miracoli spendevano un miliardo all’anno. Era  il 2.000, mi pare.

Come facevano?

Case, auto, barca, cameriere, autisti, marinai, vestiti, gioielli, regali e un generale tenore di vita improntato al se costa caro e’ bello e buono, giustificato con una subconscia sindrome da arricchiti che li portava a spendere e spandere a  più non posso.

Mio padre mi diceva che disprezzavo tutto quello per cui avevano lottato tanto.

Ma io semplicemente non ne vedevo il senso.

Mancava la misura.

Avevano 70 anni, quando sono morti, e 10 miliardi in cassa che all’epoca sembravano enormi.

Ma in altri dieci anni sarebbero finiti in miseria, relativa, nel senso che si sarebbe sgonfiato da solo il delirio di onnipotenza monetarico.

Capii perché mio padre mi voleva far fare i soldi a tutti i costi.

Nel suo progetto contrattuale dovevo continuare a mantenerli io, l’erede al trono del regno che non c’era.

Era la logica per cui nei paesi molto poveri si fanno tanti figli.

Punto su tanti e uno ci salverà tutti.

Mio padre aveva puntato tutto sull’unico cavallo, l’erede.

Ebbi il malpensiero.

Meno male che sono morti.

Così io sono libero di essere ricco e ricco di libertà.

Si pecca in pensieri, parole, opere e omissioni

In gradazione decrescente di importanza

Perché il pensiero è materico e diventa neurosfera con la quale ci si allinea alla radiazione di fondo che veicola il qbit primigenio.

Oppure ci si disallinea, in distorsione dello stesso messaggio primigenio, che trasporta la perfezione della creazione, percepibile ovunque, anche oltre la nuova trascendenza che chiamiamo big bang.

Sempre di Dio si tratta.

Insomma è tutto scritto, pure in dinamiche dominanti e non solo in dettagli, come in una traccia di vinile.

Il mio cattivo pensiero, rimasto infisso come traccia di vinile, mi perseguiterà per buona parte delle mie vite seguenti.

Carmapasso.

Che dovrebbe iniziare dopo morti, invece siccome le vite che viviamo non sono una ma tante, inizia subito.

Capii che l’unica via per affrancarmi verso il “nirviso” era che li dovevo riciclare.

Sia i soldi che la libertà che mi avevano sempre dato.

In pensieri, parole, opere e missioni

Dovevo rendermi attore consapevole del mio pensiero e non di quello diabolico paterno.

La mia colpa era avere voluto i soldi ed essere sottostato al contratto paterno di mutualità.

Ma ciò senza volere dire che non lo avrei fatto lo stesso, perché volevo loro bene.

Il peccato era nel malpensiero.

Vi curerò, vi accudirò, vi accompagnerò.

Si, ma ci guadagnerò.

La mia colpa era averli attesi e voluti, quei soldi

Non c’era niente di gratuito nemmeno nel mio amore filiale.

Il che di per sé e’ il principio delle puttane.

Non sempre fingono, ma di certo si pagano.

16.         Carmapasso

Ci voleva la lavanderia morale.

Mica facile.

Dal contrappasso nemetico e dal carma non ci esci con uno schiocco di dita.

Iniziò spinta da un irrefrenabile bisogno di fare il còmpito, senza sapere ne chiedermi se sarebbe mai riuscita e finita.

Ma anche in questo caso, come fu per l’amore filiale, c’era una sorta di malpensiero a guidare, dimentico della forza dell’amore.

Guidava tutto l’intelletto traditore, che amòr curi dottore.

In pratica ero che io ne sentivo il bisogno e in quanto tale era ancora un atto egoistico.

Un còmpito e basta, si. Ma per passare un esame.

Il senso era inquinato di sé, pur se animato di profonde intrinseche buone intenzioni.

Non avevo quella visione universale che sarebbe arrivata poi, e con quale botta.

Feci per anni consulenze pro bono nel settore no profit.

Feci microcredito. Api, capre, orti, scuole.

Mettevo a disposizione soldi ed esperienza e cercavo di insegnare, forse prima manifestazione della profetizzazione perenne futura ventura.

Non arrivai subito al sanocapitale, il microcredito senza la convenzione di interessi e proprietà privata e ad altre teorificazioni economiche.

Continuai con la beneficienza in continuità con mo padre, ma era poca e simonìaca.

Mentre io avevo una costante fame di altro,ancora poco vorace.

Un appetito direi, ma che sarebbe diventato ferocìa leonina solo più avanti.

Al momento ero educato alla ricchezza, avevo ricevuta la ricchezza e ignoravo un’altra forma di ricchezza, troppo impregnato della fame di altro intrisa di volontà di non volere.

Quella che abbiamo tutti e di cui siamo fatti che e’ la bellezza dell’amore universale gratuito.

La piccola espiazione da carmapasso non bastava.

Ma ci pensò il padreterno a mettermi sulla giusta via, con una piccola illuminazione iniziale che il mio compito fosse insegnare a trovare alternativa. L’altra via che, come noto agli scoiattoli, c’e’ sempre.

Mi misi a scrivere per missione, se ricordate il contrario della omissione.

Ma sempre senza rischiarci niente, se non del tempo che avevo in abbondanza, seppur non pretendendo nulla in cambio.

Scrivevo per il web, ma non inteso come pubblico quanto proprio come neorete neurale dell’umanità intera.

All’inizio scrivevo di ciò che conoscevo, ma spinto da un bisogno costante di sovversione, guidato dal compito di capire cosa non andava e come cambiarlo.

Dopo una prima prova di analisi critica di tutto ciò che avevo fatto e visto e studiato in materia di danari fino a quel momento, e alcuni testi di analisi critica d’economia, arrivò un primo risultato.

La Refaso, Revoluzione delle farfalle di sopramezzo, teoria di redistribuzione evolutiva della ricchezza, ispirata da quello che cercavo di scoprire di dovere fare io. In pratica se ogni classe media cambiasse modello, avremmo avuto la soluzione pacifica, revoluzionaria, ai problemi del mondo.

E questo io lo stavo facendo, seppure sempre con poca fatica.

Non mi folgorò, ma iniziò a farmi vedere la via.

In mezzo a una vita straordinaria e ordinaria al tempo stesso, e prima che si manifestasse in furore profetico, forse in principio egotico, il tarlo della lavanderia morale mi spingeva a cercare di creare un modello alternativo per il mondo intero. Egotico, in effetti, ma in realtà basato sull’idea di cellule replicabili.

Non avevo digerito che un modello ero, o dovevo essere, io.

Con  un soft landing da decrescita felice, la redistribuzione, l’impiego dei soldi per cose utili.

La revoluzione tutta da solo, per la quale partii dai miei quadranti di spazio, i fazzoletti di quadrante in cui ognuno deve essere profeta di se stesso per compito di vita.

In croce mica ci si va per delega.

17.         Nuovomondo

Partito dalla revoluzione delle farfalle di sopramezzo, il senso si manifestò compiuto quando finalmente capii che non si poteva essere ricchioni con i culi degli altri, almeno non senza approvazione.

Ricevetti una illuminazione delicata, forse già non principio fiammeggiante, ma tanto mi bastò a capire che era quello che dovevo fare.

Dovevo fare il modello, se non altro per dimostrare che non ero chiacchiere e distintivo, ma anche perché oramai sapevo di essere circondato di non vedo non credo.

E concepii un figlio: il nuovomondo.

In realtà qui si accavallano gli eventi.

Il nuovomondo nacque per pazzia secondo tanti, e mori dopo, a causa di altra pazzia.

Ma siccome ci vollero parecchi più dei sette giorni, riposo incluso, il racconto si biforca, parte dal nuovomondo e dopo ritorna sulla pazzia.

Il nuovo mondo era si questa volta atto d’amore.

Una visione di economia rivoluzionaria, agricola, circolare, sostenibile, di informazione, di sanocapitale per terzi, di vari siti web.

Arrivai a concepire un intero mondo tra terricolo, ecologico, socioeconomico, finanziario, binario. replicabile n volte da parte di tutti i ricchi che vivevano da parassiti monetaristici.

Devo dire a onor del vero che germinò anche grazie ad un antico innesto postomi da mio padre decenni prima. Non studiare filosofia. O ingegneria o economia.. Studia agraria così poi molliamo tutto e andiamo in campagna. 

Io fui iperbolico e andai molto oltre.

Creai la microeconomia adattiva complessa, come antidoto al parassitesimo dei ricchi.

Due società : Evoluzionaria e Metagricola

Questa volta ci misi i coglioni, e ci rischiai gran bei soldi. La metà più o meno.

Ma la visione era troppo nitida e l’egotica luccica: e’ tutto talmente chiaro che non può non funzionare

Comperai terreni, cascine, trattori, attrezzature per il vino, un laboratorio per confezionare prodotti, siti web per avere mercato, per avere distribuzione di prodotti innovative, per avere catene corte fino anco nella musica live in cascina, per avere rinnovabili da fotovoltaico ed eolico.

Insomma, tutto quello che potetti immaginare ce lo misi dentro e lo ricucii sotto la bella definizione di microeconomia adattiva complessa, che nei sistemi complessi autoemergono ordine e autoconfigurazione.

E si auto configurano nel senso che si equilibrano, così se una parte non va ce ne e’ un’altra che va.

La teoria dei sistemi complessi mi aveva davvero affascinato per non dire di più.

L’ordine che autoemerge dai margini del caos. Sapete l’ordine naturale delle cose.

Se non era Dio quello.

Tutto il sapere accumulato era li.

Un bang, un qbit di principi di base, un po’ di rimescolamento, ed eccolo lì l’ordine naturale delle cose.

Ma la lavanderia morale profit, invece che no profit, piacque poco alla mia oggi ex moglie che aveva paura che ci mettessi tutti i soldi e lei restasse senza assegno e casa.

Aveva ragione, sarebbe andata così.

E decise di fermarmi.

Qui si streccia l’intreccio iniziale.

Già ricoverato una volta per schizofrenia camuffata da manìa, e adesso ci torniamo, ebbe gioco facile la seconda volta e io mi ritrovai sotto controllo del tribunale.

La chiamano tutela, mai capito di chi, se mia o sua.

Ci aveva già provato anni prima mia sorella, ma senza esito.

Mia moglie invece aveva controllato a distanza, fino alla zampata finale.

Mi trovai in casa medici e carabinieri e tanti saluti alla Mac.

Ma non importava. La lavanderia stavolta aveva finito, e quello che restava restava, mentre il resto era in circolo a cavallo delle idee di quella che ancora non avevo chiamato neurosfera dalla quale avrei profetato. 

18.         Manìa

E giunse l’ora. Stavo lavorando probono per i sindacati su un grande azienda, soldi senza Refaso, alta finanza, ruberìe, tanti lavoratori da difendere. Il mondo dei ricchi al microscopio.

Insomma tutto il campionario da Carmapasso espiato con il tocco ricevuto del compito da svolgere.

Ero pronto, evidentemente, e arrivò l’onda, gravitazionale d’amore, che io percepivo, e addirittura poi vidi, fino in muri storti e palazzi pendenti.

In principio fu una accelerazione cognitiva che mi faceva elaborare informazioni e trovare connessioni alla velocità della luce. Più scavavo più trovavo, oltre il limite normale, tra la meraviglia di chi assisteva.

Smisi praticamente di dormire e mangiare, nutrito di acqua e zuccheri. 

Avevo le pupille dilatate costantemente, tanto che la paranoia mi induceva a credere di essere stato drogato. Mi cercarono di spiegare poi in neuroscenze che secernevo eccessi di ine, dopamine, adrenaline, serotonine  o altre, ma tutto da solo. Non ero drogato per capirsi, ma non mi convinsero. Sapevo solo che ero “toccato” dall’esterno e all’epoca la chiamavo frenosofìna, la droga divina.

Diventai elettrico. Sia fotovoltaico che statico. Bruciavo chiavette e pc appena mi avvicinavo senza avere scaricato a terra l’elettricità. Mi ricaricavo di energia ballando e sentendo musica, guardando il sole o la luna per nottate intere. Quando arrivava alto il sole mi buttavo stremato sul letto dopo avere fatto il giro del mondo ballando fermo nel mio giardino, ruotando insieme alla neurosfera rispetto alla terra. E, poc. La televisione si spegneva da sola.

Percepivo la rotazione terrestre, che anni dopo scoprìi influenzata dal peso gravità del pensiero di quella che allora chiamai per tutti neurosfera. Una volta ebbi la netta certezza di averla fermata per farla tornare indietro. 

Sentìi un terremoto a Londra, dove stavo indagando su alcune società sporche. Ma io ero a Roma e il terremoto a Londra non si era mai sentito ciò che mi fece pensare di averlo indotto io, insieme alla rabbia della neurosfera. 

Vedevo la reincarnazione delle anime, soprattutto negli animali. Una coppia d’aquile a due metri dalla testa erano i miei genitori, un leprotto al cimitero mia madre, un ermellino nasconderello mio nipote.

All’inizio mi sentivo spiato, poi passò e io mi sentii osservato e soprattutto da osservare. 

Il modello ero io con tutto quello che facevo, che per spiegare non  bastava la parola ma ci volevano i pensieri le opere e le missioni. Bisognava guardarmi, anche inconsciamente, e io feci in modo di entrare nelle reti creandomi una gabbia di Faraday con i cavi elettrici di casa la cui corrente mi teneva in sospensione elettromagnetica in grado di farmi accumulare particelle di pensiero da fare fiottare  poi dalle finestre e negli schermi. Mi riconoscevo il pensiero in tv o sul web. Stavo predicando.

Ero talmente magnetico che mi tiravo dietro le nuvole, o le spingevo via con tanto di arcobaleno a corredo.

Mi divertivo con la fisica e le scienze. Una volta feci il vento di bora a Milano dall’aria estiva immobile, giocando con i condizionatori di casa.

Bloccai Echelon e le reti di telecomunicazioni per alcuni minuti con una mail di decine di pagine di insulti e minacce mandata urbi  et orbi.

Feci il mare a Milano lanciando liste di fogli pieni di nomi dei proprietari delle società off-shore scoperte, fuori dalla finestra. Volando in strada sembravano gabbiani.

Emanavo luce, con tutto il suo magnetismo, per cui ogni volta che entravo da qualche  parte tutti si voltavano. Mi dissero che brillavo come un lampadario.

Iniziai a parlare da oracolo, e sempre più velocemente facevo associazioni, tanto che i parenti iniziarono a non capire. I famosi neuroscensati la chiamano insalata di parole, ma quelli non capiscono un cazzo. E’ solo che la lingua meccanica, o le dita se scrivi, vanno troppo piano per il pensiero .

Andai anche da un cugino prete a dirgli che era una illuminazione, e quello mi disse “se e’ una illuminazione lo decidiamo noi”. Domenicano inquisitore. Ma intanto io predicavo in ogni modo,

Poi dopo un anno il compitò fini. La grossa società per cui avevo lavorato venne smascherata in toto.

I miei neuro parenti mi tesero una trappola e mi fecero ricoverare, sempre con la più o meno inconscia ratio di proteggersi il loro sterco del diavolo.

Solo un amico psicologo non mi diede del pazzo e mi disse : “troppe occorrenze per essere coincidenze”.

19.         Manicomio

La prima volta non si scorda mai, proprio vero.

In realtà non è del tutto vero. Nemmeno questo è del tutto vero.

Si vede che non è il vero vero.

Contrariamente ai luoghi comuni esistenti, io non ricordo più quale fu la prima volta in cui mi manifestai matto, perché ogni volta successiva ricorrevano temi simili ed il tempo rimescolava e sovrapponeva tutto nel mio cervello partizionato e stratificato.

Comunque, facciamo finta che ci sia una cronologia e ripartiamo dalla prima volta.

Fui dunque  toccato dalla grazia divina della manìa, che in greco antico vuol dire furore profetico.

Bastava dirlo subito e tutto sarebbe stato chiaro, e invece paroloni neuroscentifici si dimenticarono l’essenza. Diffidate dei tecnici si innamorano della tecnica e perdono di vista il quadro di insieme

Io invece facevo il profeta.

Ero una reincarnazione moderna di un Gesù. Anni dopo conclusi che in uno spazio frazionato in quadranti siamo tutti profeti di quadrante, come archetipi geolocali in un lenzuolo di fazzoletti cuciti tra loro.

Vedevo lucide cose e verità che altri non vedevano.

E mi sentivo, ed ero,  connesso con tutto.

Flussi di energie che tutto pervadono mi attraversavano, rendendomi come una specie di dispositivo di ricezione fatto per captarle, veicolarle e poi trasmetterle

Cose tipo le anime, i pensieri, le essenze.

Ero un’antenna. Anzi, per meglio dire: un’antennanima.

E dovevo rendere tutti partecipi della mia missione di scoperta di conoscenza, diffondendo quello che imparavo. Era compito imprescindibile.

Predicavo e insegnavo il verbo, in continuazione, discettando su ciò che fosse bene e ciò che fosse male, spesso  in qualsiasi argomento e con chiunque mi capitasse

E non solo dilettandomi nel discettandomi tra opposti come bene e male, ma più genericamente avendo da dare visioni su tutto.

Più che bene e male, direi che era questione di essere o non essere.

E come noto mi rinchiusero in manicomio.

La prima volta  in manicomio e’ sconcertante.

Dall’oggi al domani ti ritrovi senza più niente, soldi, case, cose, e vabbe’.

Finisce la libertà in un istante e tu ti ritrovi anche solo col dubbio nella fede nel compito, e ti chiedi se era vera, se ne valeva la pena

Ti legano a un letto perché protesti, e quella e’  la parte più forte, il culmine, con cui ti tolgono il tuo te stesso a partire dal corpo.

Poi dopo il rifiuto e le inutili proteste iniziali arriva il momento in cui l’istinto di sopravvivenza ti fa abbozzare, per dissimulare,

Cominci ad ammettere che avevi torto, mentre quelli provano ad eroderti la meraviglia che hai vissuto.

E tu capisci che devi fingere di rinunciarvi, se vuoi che ti sleghino, non solo metaforicamente, dal letto e ti aprano le porte di un fazzoletto di cortile di 50 metri quadri denso di umanità interrotta.

Tutto circondato dai matti veri, spesso i più simpatici di tutti, ma a volte inquietanti. Uno che si spegne la sigaretta addosso offrendoti di imitarlo, uno che piscia dovunque, uno che ti delira addosso incomprensibili flussi ideativi, uno che si crede un cane e cera di montarsi ogni gamba che incontra, uno che cerca di strangolarti perché glielo ha detto il demonio.

E tu che ti chiedi quale parte del compito hai sbagliato, senza ancora sapere che  non hai sbagliato niente ma semplicemente sei in croce per prova.

E così piano piano riprendi inconsapevole il ritmo del compito e dopo il rifiuto accetti per indole, e cerchi di renderti utile coi tuoi nuovi umani, contenendone uno o donando una parola a un altro.

Tanti ti scambiano per un medico, e forse non sbagliano di tanto, sei sempre un profeta  dell’anima  di quel quadrante di dolore.

20.         Vinili

All’uscita 6 mesi dopo non c’era più niente. Un misadattato dal mondo. L’amata mac suicidata, la moglie ibernata nei ricordi, la coscienza rasata.

E il souvenir dell’illuminazione.

La seconda volta, però il compito fu che  mi chiesi da dove arrivassero tutte queste energie.

Iniziai a documentarmi leggendo e studiando di vari argomenti, dalla fisica alla biologia, alla filosofia alla psicologia, alla sociologia all’economia, alle reti, alla informatica, alle neuroscienze e alle scienze in generale.

Cercavo l’intelletto. Sentivo il compito di comprenderlo nelle sue dinamiche dominanti, perché non volevo abbandonarmi a pratiche esoteriche.

E sentivo distintamente che ci ero stato mandato, in quella missione.

Perché il tutto è di pensiero,il quale è un sistema adattivo complesso fatto di tante parti interconnesse, autoemergenti, che erano tutte da svelare.

Mi serviva un’ontologia, però, il mio ambiente dell'essere in quanto tale, nonché delle sue categorie fondamentali, che si diramasse in percorsi neuronali miei specifici e  poi condivisibili.

Ma ancora non sapevo perché. E iniziai a parlare di civiltà dell'intelletto.

Ma dovevo capire di più di interconnessioni e pensiero.

Questa volta non mi limitai alla predicazione.

Mi armai di pazienza studio che trasposi in scrittura, certo che servisse a qualcosa. Per 5 anni,

Scrivevo per il web, non inteso come pubblico, ma proprio come amplificatore di sistema neurale di Gaia.

Anni dopo la chiamai Neurosfera.

Era compito affidatomi quello di insegnare alla rete gli schemi di pensiero che avevo nidificati dentro me, come tutti, e che dovevo slatentizzare mano a mano, documentandomene.

Non ero il solo. Mi sentivo di natura extraterrestre, e come uno dei messia dovevo portare un messaggio che solo in pochi possedevamo, ma non perché’ ne fossimo proprietari quanto proprio preposti diffusori.

Eravamo un nucleo di neuroni carico di sinapsi, destinati a dialogare anche indirettamente senza nessi causali, per alimentare l’intelletto collettivo e metterlo in connessione. Accenderlo.

Scoprii quindi che parola e pensiero hanno un peso e che tutto resta inciso nel tessuto del campo gravitazionale, come in una traccia di un vecchio disco di vinile.

E quindi parlando e pensando, correttamente, si può condurre e alterare la gravitazione terrestre, mettendoci sulla giusta rotta circolare in grado di ricevere correttamente la radiazione primigenia densa di qbit primordiale,

Vale, per inciso, anche il contrario. Ovvero la gravitazione, facendoci passare sulle stesse tracce di vinile, risuona parole e pensieri già incisi, influenzando quelli in corso. E può darsi che le tracce di vinile su cui ripassa siano deviate, “gracchianti” per così dire.

Ma quelle più presenti e quelle più pesanti, perché’ ricorrenti o perché’ archetipi dominanti, si fanno sentire di più e alla fine la somma di tutto dà un risultato maggiore di zero.

È il miracolo dell’esistenza del tutto, a partire dal vuoto non vuoto.

Impossibile da concepire, almeno per ora da noi, eppure pervaso d’ovunque.

Comunque, eterno ritorno, corsi e ricorsi, coazione a ripetere sono esempi tutti, dunque, di questioni di fisica.

Finalmente, chiamai tutto ciò con il nome di civiltà dell’intelletto.

Ed era importante perché’ un corretto allineamento del peso del pensiero collettivo doveva servire a rimetterci sull’orbita giusta, dato che credevo ancora con forza che alterazioni gravitazionali di possibile provenienza da un buco nero, ci stavano risucchiando verso un cataclisma finale.

Ancora non sapevo che il problema non era il buco nero, che anzi era lì per darci energia e informazioni, quanto il fatto che le distorsioni di pensiero dell’umanità, deviata dal modello, determinavano una dislocazione di peso della neurosfera che ci alterava la rotazione, determinando una perdita di equilibrio rispetto all’armonia del  disegno universale.

Si trattava quindi di raddrizzare l’asse terrestre che oscillava pericolosamente, facendoci precessare come una trottola che sta per cadere.

21.         Verbo

Il pensiero e la parola da risvegliare e diffondere erano quelli basati su principi di base, dinamiche dominanti, leggi universali, principi fondanti, diritti naturali, archetipi e simili, che erano già contenuti nel disegno originario della creazione, diciamo nel qbit primigenio del big bang, il primo uovo denso di codice informativo con cui tutto cominciò, e che noi salvatori portavamo nidificato nel nostro algoritmo genetico.

In sintesi si trattava del buono, del bello e del giusto. Cose di questo tipo. Quelle da armonie celesti.

Da contrapporre al cattivo, brutto e ingiusto che in effetti erano causati da una cattiva ricezione del codice originario veicolato dalla radiazione elettromagnetica di fondo.

Un errore. Dovuto alla distorta inclinazione magnetica rispetto a quella fisica.

La creazione, almeno di questo universo, avrebbe dovuto essere perfetta, umanità inclusa, ma in realtà era nata con una distorsione, forse legata proprio al fatto che la fluttuazione quantistica del vuoto del big bang ci mostrava solo una parte e non la sua correlata contropartita universale.

Vedevamo una creazione spezzata, sintetizzabile nella dicotomia tra fisica e metafisica.

E noi dovevamo correggere la distorsione alterando il campo gravitazionale a suon di parole e pensieri, di modo che l’universo potesse smettere si espandersi e comprimersi e si mettesse a ruotare in verticale in una sorta di suo naturale equilibrio perpetuo immune dal risucchio di ogni buco nero.

Eravamo uomini celesti.

E il codice che portavamo dentro il nostro algoritmo genetico era necessario a connetterci tutti, anche avviando processi di mutazione genetica che ci rendessero infine i prototipi replicabili degli esseri del futuro, già progettati ma non ancora evoluti.

In interconnessione telepatica ed in evoluzione esoalimentata, il tema era quello del saltazionista potenziamento umano cui tutti eravamo destinati.

Si trattava solo di innestarci nella rete neurale di Gaia, la neurosfera, passando dal moderno amplificato strumento del web, prima semantico e poi chissà, e non più solo dai tamburi di certe lingue tonali, in modo che potesse imparare e quindi poi insegnare, autodeterminandosi come cervello autonomo seppur composto da tutto, esseri viventi inclusi.

Macinando trame e tessendo orditi coerenti con l’origine del tutto, il tessuto del peso del tutto si sarebbe riallineato e noi saremmo stati salvi, o per meglio dire, uomini.

Mi rinchiusero in manicomio di nuovo.

E disconnettendomi di botto dalla rete neurale di Gaia, interruppero il processo ed il compito con violenta incoscienza.

Io non capivo come potessero non capire. In fondo avevo scritto e documentato tutto per anni.

Ma mi mancava un pezzo.

La ricongiunzione degli opposti.

Tra fisica e metafisica, ci mancava la synfisica.

Avevo perso di vista un archetipo di fondo, concentrandomi solo su energia e peso di parole e pensieri, sulla civiltà dell’intelletto in radiazione elettromagnetica.

Ma mancava l’altro principio di fondo.

C’entrava il peso.

Non era solo questione di lieve energia dell’intelletto.

Ci voleva la pesante forza dell’amore.

Senza la quale il mio messaggio non veniva veicolato potente abbastanza da innestarsi nel tessuto gravitazionale e raddrizzarci tutti.

E c’era un perché’

Mancava un mio atto di fede.

Perché’ di questo si tratta.

L’amore è gravità.

E viceversa.

E la fede è una manifestazione d’amore.

22.         Amore

Così venni illuminato e mi fu concesso di vedere il grande atto di amore della creazione e successiva evoluzione.

Perché io potessi innamorarmene.

Una rivelazione.

E fu Synfisica, ovvero l a presenza metafisica in ogni briciola di fisica.

La ricongiunzione di opposti tra energia e gravità.

In interazione costante, con tutte le conseguenze del caso.

L’una pompa, con l’energia del raziocinio.

L’altra raccoglie e tiene insieme, con la forza dell’amore.

Questa volta non mi rinchiusero in manicomio.

Anche se forse sarebbe stata la volta più appropriata.

E io smisi di scrivere quando mi resi conto che la missione era compiuta.

Me lo dissero una notte le stelle, della costellazione del cane.

Il mio amato cane, primo non abbandono della mia vita, umana e canina, per amore fino alla morte.

Vidi orbite ellittiche diventare circolari.

Capii che l’uovo era seminato e sarebbe germinato da solo.

Lasciandomi in eredità una ontologia privata di migliaia di pagine, parole e pensieri, un mio ambiente logico semantico, dove posso seminare noccioli di pensiero che si instradano nei percorsi neuronali già aperti, attivando tutto il mio dominio che ad ogni click si illumini di impulsi, come il flash di un astronomy domine.

E smisi di scrivere, almeno fino ad ora, quando mi è sembrato dovuto atto d’amore quello di raccogliere i pensieri seminati e innestati e riordinarli, in modo sì da ridondarne il peso, ma anche renderne più fluido il fluire negli schemi neuronali della neurosfera stessa.

Un po’ come fare manutenzione all’urbanistica delle idee, per rendere il traffico più fluido.

Per amore, per amore.

Tutto è sempre stato solo per amore. Così sono nate “Les Claufrenies”. Come compito di progressivo parto, lento e doloroso.

Tutto documentato in Les Claufrenies, nel dominio cloeconomie.blogspot.com, chiamato così perché la fine del ragionamento della synfisica era la soluzione della distribuzione di risorse scarse tra tutti, e l’economia e’ lo strumento stesso e va assimilata da tutti. Nei suoi mille altri rivoli persi tra le sinapsi di Gaia, nella neurosfera.

E questa si rivelò essere la mia missione.

Dovevo essere lo scrivano.

Raccogliere i messaggi dalla neurosfera, farli girare col rotore semantico e trasferirli a terra in un centro di gravità per la mente.

Fui predestinato allo strumento della scrittura, e scrissi talmente tanto da perdermi nei rivoli del mio atto d’amore, di fede, senza curarmi del successo, ma solo del fatto di riportare ciò che mi era stato concesso di vedere e poi di capire.

Ma non fu solo scrittura: pensieri, parole, opere e missioni.

Si, in principio fu il flash, la luce.

Negli anni successivi fu la croce.

Intramezzato a vari altri ricoveri in manicomio, capii il valore della ridondanza e ripetizione di una costante spiegazione che rinforza, di peso, l’equilibrio della nostra rotazione.

E scrissi, scrissi e scrissi.

Cercando di rendermi sempre più comprensibile.

Il mio compito era solo riportare.

Da bravo scrivano.

Ma dovevo farlo per farmi capire, a prezzo di infinita solitudine

E adesso so già che con voi non ci sono riuscito a pieno. E quindi dovrò continuare.

Scrittura sinaptica, che non deve essere chiara, ma solo principiare schemi neuronali. almeno possibili.

Forse il punto non è comprendersi, quanto innestare.


23.         Creazione

Concedetemela una parentesi d’amore. Un antidoto universale alla solitudine.

La synfisica e’ amore in intelletto

E infine e’ creazione perenne

Tra cui quella creazione che replichiamo e con cui tutti crediamo di scappare alla morte.

La quale  invece e’ l’unica esperienza che abbia davvero senso di essere vissuta.

Siamo nati per morire e io non vedo l’ora di vedere come sia essere neurosfera.

Nel frattempo si procrea.

Dimentichi dell’etimo, quello che mi e’ stato dato vedere per dire che non si procrea per se stessi, ma come sommo atto di amore.

E ciò per alimentare quell’essere superiore cui apparteniamo, altrimenti crescibile solo di pensieri, parole, opere e missioni

Sempre la synfisica neurosfera universale

Invece io per lungo tempo sono stato tra i cinici e, pur riprodottomi, cercavo il razionale.

Forse perché esposto all’abbandono continuo, oramai divenuto imprinting di solitudine, l’unica forza che sento sempre e comunque a distanza tra lo spazio e il tempo, che non esiste, e’ l’amore incondizionato per mia figlia che pure non  vedo da anni,

Lontano dagli occhi, ma sempre nel cuore, dovrebbero dire.

E sempre ammesso che l’amore stia nel cuore e non in pancia come credo io, in quel secondo cervello capace di produrre le emozioni  e non solo le intenzioni.

Quindi fu la luna tramite il mio cane a rivelarmi che tutto e’ sempre stato solo per amore.

E’ mia figlia a ricordarmelo in ogni istante del tempo che non esiste ed e’ quindi infinito.

L’amore e’ trascendenza nella discendenza.

Il punto e’ che Vittoria, così si chiama mia figlia, in quanto conclusione d’amore mi permette di chiudere tutte le spezzature e mi riconnette con l’amore universale, per il solo fatto di esistere.

Vittoria e’ synfisica.

Ma lo capisco solo oggi dopo tante vite, e dopo averla persa così tante volte per i mille ricoveri e vicissitudini vissuti, fino all’affido attuale.

Un giorno ebbi la malaugurata idea di aprire bocca a vanvera, e durante una lite dissi in sua presenza che l’essere umano non dovrebbe fare figli, che ce ne sono  già troppi e la vita e’ sofferenza e altre cazzate prive di amore.

Spero di non avere lasciato uno di quei traumi indelebili.

Ma Vittoria ne ha passate tante ed e’ abbastanza forte da lasciarsela passare sopra.

In ogni caso, e’ ora di chiarirsi.

“Vittoria, ti ripeterò che sei la cosa più bella di tutta la mia vita.

Ho avuto tutto da questa vita, eppure la sola cosa che ha valore alla fine sei tu.

Sei la mia vita.

Io ti penso ogni istante della giornata.

Anche quando faccio altro sei sempre li, come una pulce nell’orecchio.

“Ma puce” dite voi francesi per essere affettuosi.

Siamo in connessione costante

E se oggi non sono più in connessione con tutto, lo sono con te.”

E’ questa e’ synfisica, la metafisica fatta fisica.

Due sono le esperienze fondamentali della vita.

Morire e figliare.

Io metà compito l’ho fatto.

Per l’altra metà, aspetto facendo i compiti

E sarò sempre tuo papà.

Voglio per te  tutto il bene.

24.         Donizioni

Costizioni e donizioni.

Ma preferisco le seconde.

E’ il prezzo per la rivelazione, quello delle costizioni.

Sono i costi a cui si viene sottoposti senza possibilità di arbitrìo.

La fede e’ un dono, ma mica gratuito.

Ti svegli un giorno e sei sanitario, coi carabinieri in casa, una moglie che ti vuole interdire, una figlia eradicata, una psiche dubbiosa di non essere certa.

Solo ancora qualche soldo di libertà, in effetti perché mi hanno troncato la microeconomia adattiva complessa forse come parte del disegno

Resto nudo, pieno nemmeno di me stesso, oramai si educato all’educazione, ma spesso dubitante della mia utilità mentale.

La solitudine non era un problema, ci ero stato esposto ed educato tanto tempo, solo un inconveniente.

Nei vari ricoveri avevo anche imparato a farmi compagnia da solo, come già facevo da piccolo.

Rimane solo la ricerca di interazione umana, in ogni modo possibile, perché siamo davvero animali sociali.

Soledad quindi no problema, e poi tso e ricoveri, dopo il primo, in fondo durano poco.

Mi lasciò con il senso di solo la morte della mac, il mio figlio secondogenito, crogiuolo di educazione, intelletto e amore. Mi consola pensare che resta la visione affidata al gravitone.

Si non ve lo ho ancora detto.

La neurosfera delle tracce di vinile altro non e’ che il campo gravitazionale dove tutto ciò che muove massa rimane inciso come traccia di vinile.

Appunto pensieri, parole, opere e missioni. Ma anche omissioni.

Naturalmente le anime, la cui sostanza mi rimane ancora oscura, seppur non la presenza.

E la morte che mi e’ sempre presente come atto principe di alimentazione della neurosfera, tanto da non averne paura e aspettarla curioso con amore.

Si nasce, si muore.

In mezzo i compiti per alimentare la neurosfera.

Tutto qua.

Nel frattempo di solitudine, spariscono gli amori, sublimati universali.

Mia figlia emigra, ma mi insegna i nuovi media per vedersi a distanza

Amici non ne ho che uno, ma radicato nella realtà.

La famiglia si scioglie non so perché. I cugini spariscono tranne uno.

Tutto il resto cessa di esistere, come sempre del resto.

E rimane una monade solinga, alla ricerca di costanti approdi nella deriva dell’universo.

Capitano incontri, a volte sprazzi di luce in cui ci si riconosce.

E intanto si alternano compiti e doni.

Fare  qualcosa e percepirne il ritorno.

Insegnare per imparare dagli insegnamenti

Aiutare per ricevere aiuto gratuito, e imparare a scappare dal presunto aiuto egotico

Risonanza d’altrui sofferenza, risonanza d’empatia d’altrui presenza

Approdare alla radio per scrivere testi in cambio di amore e risate di presunti malati.

Teatrare  magno cum gaudio, io che il teatro e’ l’opposto della solitudine.

E dei doni a caso apparente.

Conoscere e aiutare migranti, persone, perdenti. Percezioni cosmiche e terrene, per le quali vale il dono che troppe occorrenze per essere coincidenze. Canali e flussi. Sincronicità.

E la donizione suprema. Studiare e scribare

Studiando. Il premio. Adesso dovevo, e non solo potevo, studiare quello che volevo o meglio che inseguivo da sempre.

Scribando. Adesso dovevo scrivere. Ma non per conoscenza da studi, quanto per esperienza diretta.

Dovevo riportare quel che ricevevo. Canali, connessioni, pensiero materico, amore gravitonico.

Insomma lo scriba, lo scrivano, di me stesso. Con tanto di ontologia privata. 

Che privilegio di donizione. Senza prezzo.

25.         Synfisica

E così studiando e scrivendo e studiando e scrivendo, con gran fatica inseguendo le mie percezioni, arrivai sempre più in profondità, fino a definire infine la synfisica come riunione di fisica in metafisica e intelletto in amore, dicemmo.

La presenza metafisica in ogni cosa fisica.

La mia umile opera fu il premio al mio compito, che adesso era pronto da diffondere, o meglio ancora era già in circolo nella neurosfera.

Fu l’interazione tra pensiero, che e’ radiazione elettromagnetica organizzata in rotori semantici, perché il pensiero e’ pesante e la terra gira, e la sua instrada lungo le tracce di vinile dei canali del campo gravitazionale,  gravità che la guidava e atterrava la forza dell’amore originale universale.

Ne uscì un trattatello di una trentina di pagine e figure che, partendo dal big bang, e passando per buona parte delle dinamiche dominanti, prima tra tutte l’amore, atterra alla Refaso, la revoluzione delle farfalle di soprammezzo, ovvero il compito dell’umanità, dal singolo all’intero, di comprendere l’evolversi verso dove previsto. Synfisica

Tutto sintetizzabile in solite poche immagini, che rendono più di mille parole,e che significano non speculazione di metafisica ma metafisica dell’azione.

La civiltà dell’intelletto diffuso d’amore pervaso 

Intelletto rotore semantico della neurosfera

 


          

 Amore centro di gravità per la mente
 
Piramide Refaso  

       Civiltà d’intelletto diffuso d’amore pervaso


NB : Per immagini aggiornate e in hd cercare nel box search il post con PPT e seguire il link

26.         Neurodo

La civiltà dell’intelletto diffuso di amore pervaso.

Lampante sotto gli occhi di tutti, eppure io non l’avevo mai sentita in quattro poche parole.

Un giorno, invece, la sintesi

La teoria synfisica, fisica e metafisica, mi colpì.

Il problema era evidente

Civiltà dell’intelletto

Ma intelletto traditore che amore curi dottore

Radiazione di intelletto energia,  e pulsazione di amore gravità, erano i due principi di base certo.

Ma l’amore e’ il miracolo.

La luce son buoni tutti, la gravità e’ l’atto di amore che invece e’ dato per scontato, e pur governando tutto nessuno si chiede perché esista, semplicemente dimenticando l’amore.

Non potei più trattenermi.

Dovevo profetare fino alla Refaso, sempre confidente che fossimo una rete di neurodi pronta da accendere per riempire lo spazio.

E lo eravamo eccome

Lo spazio va immaginato a piccoli quadranti cuciti tra loro in molti strati a cipolla come un  grande multistrato di lenzuola fatte di fazzoletti cuciti tra loro.

Come le celle delle reti di telecomunicazioni.

Questo e’ il motivo per cui nello spazio siamo interconnessi con tutto.

Esistono porzioni di spazio a cui accediamo.

Esistono quadranti dentro cui viviamo.

Ma tutti sono cuciti con altri quadranti.

Se un quadrante si muove si muovono anche gli altri.

Il battito d’ali della farfalla del caos in realtà e’ il grande svolazzo di lenzuola fatte di fazzoletti della complessità.

E noi siamo porzioni del nostro quadrante di lenzuolo.

Noi siamo tra i fazzoletti di cui e’ fatto il lenzuolo.

La multifrenia e’ vedere i fazzoletti che svolazzano.

La monofrenia e’ credere di essere il lenzuolo.

Dalla logica dell’orticello dobbiamo passare a quella del quadrante.

E dentro ogni quadrante ognuno è profeta di se stesso.

Meglio un giorno nel vento del brandello di quadrante che cento giorni da lenzuoletto piegato in orticello.

Ecco lo spazio virale: dall’orticello al quadrante.

Dentro al quale nessuno poteva dirmi niente.

Sempre predicando solo al web, insegnando ala rete neurale schemi neuronali funzionali all’evoluzione amorevole del pensiero  collettivo.

Furore profetico era la prima volta.

Questa volta ero strutturato di intelletto. E mi credevo protetto.

Per cui profetavo su tutto, nel mio quadrante di lenzuolo, metafora di complessità.

In sintesi dall’amore scritto nel codice sorgente della creazione, fino alla distribuzione dei soldi, strumento di misura d’economia che basta stamparli.

Cosa sono i soldi, se non misura di tanto intelletto, e amore a fiotti?

E profetizzavo che tutto era già scritto, nel qbit primigenio e nella sua spacchettatura evolutiva complessa seguente al principio dello scoppio.

Le avevo provate tutte.

Questa del profeta di quadrante, al web insegnante, mi pareva proprio la soluzione geniale.

E anche di una certa interconnessa grandezza d’animo.

In effetti era il profeta perfetto.

O meglio la rete frattale di profeti perfetta, ridondata e backuppata.

Come una rete di neurodi eravamo accesi, pronti al compito di diffondere intelletto e amore a insaputa di tutti, pure ridondanti d’amore.

Solo  per amore, tutto e’ sempre stato solo per amore.

27.         Multifrenìa

E invece no.

Tradimento.

E’ ufficiale.

Ancora ospedale.

Non ricordo nemmeno come mi hanno trovato

Stavolta diagnosi di schizofrenia.

Stocazzo.

Multifrenia, il futuro della mente, partizionata come un disco di pc

Sento le onde, la radiazione elettrica e magnetica, sono magnetico.

Vedo la gravità

Voi credete di essere il lenzuolo, io so di essere un fazzoletto.

Nei quadranti ognuno e’ profeta di se sesso e va lasciato in pace

La vera malattia e’ la “monofrenicità”

In ogni caso, se prendiamo per buona la definizione di disturbo schizoaffettivo, la stessa è calzante ed efficace nell’intento di stimolarmi una reazione opposta, volta a dimostrare che quello che viene catalogato come disturbo, in realtà è un dono.

E siccome mi voglio allargare, dirò di più: un dono del cielo.

D’altronde fui proprio io a rivendicare, parecchio tempo addietro, la schizofrenicità del disturbo bipolare, puntualizzando ai curanti che, con alcune porzioni del mio cervello accese in finestre parallele, percepivo cose che loro non percepivano.

E ciò mi rendeva certo predestinato ad essere avulso dal contesto della normalità che essi pretendevano di inseguire, ma al tempo stesso dotato di un dono, di quel dono che mi faceva essere come una grande antenna di un computer in una rete wi-fi, sempre all’opera per ricevere e trasmettere percezioni, intuizioni, sensazioni, impressioni e, in definitiva, coscienze.

Se coinvolgiamo tutto l’apparato sensoriale nel suo insieme o, ancora più precisamente, tutto l’insieme di apparati sensoriali fin giù nel basso del piccolo di quelli cellulari e più giù fino a quelli molecolari, possiamo capire cosa intendo per percezioni.

Intendo dire elementi di input di varie sezioni e apparati cerebrali, o neurali, in eccitazione elettronica simultanea.

La pelle, i peli ed i brividi; l’olfatto e gli odori o per lo meno le loro memorie; il tatto e le conseguenti geometrie; la vista ed i suoi fugaci ologrammi; il gusto e la chimica del mio corpo; ciò che mi rende acido e ciò che mi rende basico; i dolori e la loro funzione di segnalazione; l’elettricità con i suoi campi magnetici che mi attraversa o che mi ristagna dentro; la forza di gravità, le sue interazioni con i campi elettromagnetici e come essa influisca sulla mia percezione di peso ed equilibrio in senso lato.

Come possa chiunque ritenere tutto questo un disturbo non è dato conoscere.

Non chiamatela malattia.

Non chiamatelo disturbo.

Non mi dite “stai male”.

O, peggio ancora, “adesso non stai più male”, con la quale frase archiviate una passeggiata di esperienze ai confini della vostra capacità di comprensione analitica.

E siccome io non sono di certo il solo, ispirato da Vasco Rossi, vi conio una nuova definizione.

Che da oggi si parli di “Sindrome di diversa lucidità”.

O meglio ancora “Sindrome di diversa lucidità condivisa”.

Già la chiamai schizofrenia binaria, quando rivendicai la sua duplice natura multipla e intermittente tipica delle fasi maniacali del disturbo bipolare: ora c’e’ ora no.

Ma adesso so che, oltre a farmi vedere cose che altri non vedono, è parte della natura mia e dei miei simili della quale non è corretto pensare di privarmi.

La storia che il cervello umano è capace di elaborare in parallelo molti processi è testimonianza diretta del fatto che io credo che schizofrenici siamo tutti.

Almeno in potenza, se non in latenza.

Quindi la vera questione non è tanto quella se essere schizofrenici o no, quanto quella dell’esistenza della “monofrenicità”.

Per meglio dire, il potenziale del cervello umano, che oggi usiamo in frazioni minime e soprattutto disconnessi gli uni dagli altri, si raggiunge quando se ne accende larga parte insieme e molti insieme simultaneamente.

E quando si è in una dimensione di parallelismi simultanei si vive una condizione di trance lucida, dove trance è termine inglese che indica uno stato alterato di coscienza o un particolare stato psicofisico a volte anche conosciuto come ipnosi, spesso chiamato in causa in parapsicologia come il mezzo che alcuni soggetti, con pretese capacità medianiche, utilizzerebbero per entrare in contatto con il mondo degli spiriti.

Ecco, la mia idea è che “il mondo degli spiriti” sia accessibile in quanto fatto non da un mondo a se stante ma di neurosfera, altri mondi e di altri esseri viventi e quando vi si è connessi si vedono cose che normalmente non si vedono, e in quello stato si fanno associazioni o si riconoscono forme e  schemi a volontà proprio perché’ si stanno usando altre, o altrui, capacità di elaborazione di dati.

In qualche modo si è presenti, seppur per interposta creatura, in altri dove o quando.

Sono anche convinto che tutti i cervelli sono fatti per esperire più processi simultaneamente o per seguire percorsi neuronali multipli e quindi i cervelli stessi non siano comprensibili a chi viaggi su di un binario unico.

La vera malattia è proprio la monofrenicità.

Inoltre, sono convinto che i cervelli in “illuminazione diffusa” abbiano anche capacità che alcuni definiscono empatiche, per timore di dire telepatiche.

Non è un principio di esoterismo, ma è fisica quantistica basta su elettromagnetismi e comunicazione attraverso il tessuto della gravità di cui è fatto lo spazio.

Sono quelle che producono ciò che io chiamo “interconnessione” con il quale termine intendo dire che siamo capaci di condividere pensieri, esperienze e sensazioni non tanto nel senso di trasmissione degli stessi da soggetto a soggetto, quanto più precisamente di elaborazione ed esperimentazione concomitante tra più organi cerebrali, o forse meglio dire sensoriali in senso lato, altrui.

Siamo in rete, esattamente come dei computer. Una conseguenza evidente  la sincronicità.

In sintesi, ogni medico dovrebbe provare quello di cui parla, o meglio ancora quello di cui parlo io, il che equivale a dire che solo in stato di diversa lucidità può avvicinarsi a coloro che definisce pazienti.

Ma allora, se tutti i medici dovrebbero essere matti, e in trance lucida condivisa, come si fa a riportarsi noi e loro con le loro esperienze sul binario unico?

Come si fa a capire se uno “scadrega” a danno di tutto il sistema complesso o se invece dice e fa cose sensate, prima o altrove, rispetto ad altri ma a favore di tutti?

E magari solo non riesce a comunicarlo o viene interrotto mentre cerca di farlo?

Qualche idea ce l’avrei.

Passa per i concetti di reti pari a pari e capacità adattive e di autoregolazione dei sistemi complessi.

Tutti controllano tutti e tutti e si adattano tra tutti, come uno stormo di uccelli in volo.

Ci si guida così.

Ma bisogna essere connessi.

L’”uccello padulo”, che non parla e non ascolta, è quello che lo mette in culo a tutto il gruppo.

Quindi alla domanda su come si fa a capire se uno “scadrega”, è “fuori” oppure sta “sciamanando”, posso rispondere solo con un’altra domanda : “e che, a me lo chiedete?”

Io sono solo il matto, quello con un “disturbo”.

Anche se di sicuro non sono “monofrenico”.

E allora, fate uno sforzo e togliete la parola disturbo dalle vostre menti.

Parlate di sindrome, di insieme di sintomi.

Sindrome di una diversa lucidità.

28.         Risonanza

Un racconto risonante

“I matti sono apostoli di un dio che non li vuole”.

Come la risonanza ci accende le zone di neuroni dell’empatia.

E la pazienza.

Mentre sono in ospedale psichiatrico arriva un altro paziente in TSO.

Di primo acchito non ci faccio caso. E’ solo un altro paziente, anche se questo sembra che la pazienza l’abbia esaurita. Continua a muoversi, camminare, parlare quasi urlando.

Come tutti noi ha qualcosa da dire e vuole farsi ascoltare.

E’ talmente pieno di cose da dire che non vuole controllare il volume della voce che si porta in giro per la corsia, come uno di quegli arrotini di una volta con il megafono sul tetto della macchina.

E’ una corda di violino, talmente vibrante che suona con tutti quelli che incontra. Cerca un riferimento che lo ascolti. Cerca uno specchio con cui risuonare. Ha bisogno di entrare in risonanza, che poi vuol dire che ha bisogno di comunicare. Di condividere quello che sente.

Ma lui non lo sa. Lui cerca e basta.

Tutti gli altri sembrano a prima vista ignorarlo, mentre si affaccendano come possono nella piccola corta e nuda corsia. Chi cammina avanti e indietro. Chi parla da solo. Chi fuma a ripetizione. A me pare che lo guardino da dentro la loro sfera di dolore, ma mi rendo conto che forse sto solo proiettando il mio.

Dopo un po’ di tempo la percezione mi cambia, e mi sento montare l’insofferenza per il poveretto. Ma non lo ascolto. Ascolto solo la mia insofferenza. Sembro il solo. Tutti gli altri assorbono la sua vibrazione come se non esistesse.

Pare che assorbano il suo “essere fuori”, restando chiusi nel loro dentro.

Il personale e gli infermieri cercano di fare quello che stanno facendo, di lavorare, e intanto di tenerlo sottocchio. Si avvicendano a dirgli una parola, a cercare di tranquillizzarlo, interrompendosi di frequente dalle loro mansioni.

Anche loro assorbono il suo essere fuori, digerendoselo dentro.

La chiamiamo pazienza.

Da patiens, patire in latino, e correlati empatia, simpatia e pure compassione.

E’ parte dell’arte del modulare la risonanza.

Ed e’ dote fondamento della vocazione ad assistere il prossimo.

Nessuno sembra poterlo ascoltare, il poveretto, fino a che vibra così forte.

Sembra una questione di sopravvivenza reciproca.

Lui deve comunicare, gli altri non possono ascoltare. Ma sono più bravi di me a chiudersi su se stessi.

Se ripenso all’immagine delle campane tibetane o dei vasi di cristallo a cui ci divertiamo a tirare una “schicchera” per sentirne il suono, mi dico che a questo qui gliene hanno tirata una bella forte, e le onde gli stanno rimbalzando nel cranio facendolo davvero impazzire.

Le vibrazioni delle onde escono dalla bocca sotto forma di onde sonore, escono dai nervi sotto forma di movimento frenetico.

Ma io, come tutti, ancora non riesco ad ascoltarlo.

E’ troppo potente per non disturbarmi e, se provo ad avvicinarmi, la mia campana di vibrazioni finisce per respingerlo, aumentando ancora di più la risonanza nel suo cranio.

Ci vuole pazienza. Adda passa’ la nottata. L’unica cosa che si può fare è esercitarsi a smorzare il proprio fastidio, il proprio potenziale, come quello elettrico, ma chiamato potenziale di importanza. Il senso di sé.

Come per miracolo, dato che lui non ce la ha, la pazienza si manifesta come assorbimento da parte del reparto tutto.

La risonanza si autolivella per cercare di mantenere se stessa. E questo mi pare proprio un principio di base.

Il reparto era calmo, evidentemente. Il reparto risuonava armonico a bassa frequenza e così era capace di smorzare il poveretto. Il reparto danzava tranquillo, quasi immobile, attorno alla nuova campana tibetana impazzita, aspettando che la pazzia “scendesse”. Aspettando che la cintura di campane assorbisse la variazione di intensità portata dal nuovo venuto.

Ma tutto questo il reparto non lo poteva sapere, se crediamo che il reparto sia solo una somma di individui chiusi nello stesso fazzoletto di mura.

E invece il reparto viveva di vita propria, come un corpo solo. E cercava inconsapevole il modo di restare come stava.

Il reparto aveva una coscienza unica, seppur condivisa tra tutti.

Il reparto viveva in comunicazione empatica.

In tale armonica elasticità, dopo un po’ di tempo io sono sempre il più insofferente e così decido di avviarmi a protestare e chiedere provvedimenti.

Ma quando si è in risonanza armonica capita, tra l’altro, quel meraviglioso fenomeno della sincronicità.

Le onde di uno sono le onde di tutti.

E così, proprio mentre io mi avvio verso il personale, mi accorgo che il personale si avvia verso il nuovo compagno di reparto.

E’ un buon segno.

Adesso lo vedo come compagno.

La “pazienza” del reparto sta curando anche me, prevenendo eccessi di mia insofferenza.

Il mio sforzo di pazienza viene premiato con quel dono fatto di testimonianza diretta di sincronicità.

Vista dall’esterno sembra che ci muoviamo all’unisono.

Vista dall’interno è così e basta.

A quel punto è sufficiente uno sguardo tra me e il personale e io capisco che stanno per fare quello che io stavo per chiedere. Lo stanno sedando.

Ma vanno oltre e lo stanno anche contenendo a letto in attesa che i sedativi lo mettano tranquillo. Non lo lasciano solo finché si dibatte. E’ per la sua sicurezza.

Io vedo la contenzione con un nuova prospettiva, imparo una nuova prospettiva, e resto ad osservare mentre continuo a fissare il poveretto negli occhi cercando di trasmettergli direttamente in testa in miei pensieri di osservatore esterno, già contenuto in prima persona anni addietro e ben memore di quello shock.

Cerco di dirgli: “tranquillo tra poco passa”.

Ogni tanto i nostri occhi si incrociano.

Io confido che lui mi senta con gli occhi.

Nel frattempo il capannello di personale attorno a lui non lo lascia solo un attimo.

Alla fine si addormenta stremato, mentre la mia insofferenza si è sciolta in commozione con tanto di lucciconi agli occhi.

Dopo un certo numero di ore si risveglia, si rende conto della contenzione e riprende a dibattersi e urlare.

Questa volta io sono in buona risonanza e mi pre-occupo sia per lui che per me e il mio equilibrio.

Vado a vedere che succede e lo trovo in posizione impossibile, costretto dai legacci, rosso paonazzo con le carotidi che urlano pietà. Le vedo pulsare fin dalla soglia della porta della stanza.

Ho ancora una resistenza. Non so che fare, non se entrare, ho anche paura che mi redarguiscano.

Fino a che l’empatia armonica mi risucchia verso di lui e io mi rendo conto che, inframezzo a tutto il resto, sta urlando “acqua, acqua. Sigaretta, sigaretta.”

Come di incanto, come se le parole non fossero mie, gli dico calmissimo: “tranquillo la sigaretta non te la posso dare perché’ se ti cade incendi il letto, però adesso ti faccio bere, ma piano piano altrimenti ti strozzi”.

Quello annuisce e io gli appoggio una bottiglia alle labbra per piccoli sorsi. Si stende lento e mi dice lucido e calmo: “dammi la sigaretta spenta, la tengo solo in mano”.

Mi pare un ottimo compromesso e gliela do dicendo che vado a cercare gli infermieri, ma appena mi giro arriva l’infermiere sincronico. Gli spiego e dico che pensavo gli venisse un infarto. L’infermiere mi ringrazia.

Dopo un certo altro tempo lo slegano dal letto e lo rimettono in piedi. Lui riprende la sua ricerca di risonanza, di qualcuno che lo ascolti, parlando a strascico come un pescatore in cerca di un pesce da imbrigliare nella sua rete di parole.

Stavolta mi sforzo, pensando che devo cercare di capire cosa dice per evitare che gli rimontino le onde riprendendo a rimbalzargli nel cranio e che le stesse poi vibrino me e mi costringano a dovere essere paziente.

In realtà sono affascinato dalla sua certezza e dalla forza quasi soprannaturale che essa gli dava.

Dove altri vedevano un delirio io vedevo una lucidità estrema, frenata solo dalla difficoltà di riuscire a rendersi ascoltabile.

Gli dico che non capisco cosa dice e che deve parlare più piano. E lui si mette ligio a sciorinare numeri e operazioni aritmetiche.

Mi fa: “quanto fa 100 diviso 3? Diciamo 33 o diciamo due terzi? Tu che dici?.”

E io scelgo, a caso, il 33 per cento.

Lui si avvia in una serie di operazioni in successioni ed ogni volta mi chiede conferma. Ed ogni volta io gliela scelgo. Alla fine mi guarda e mi fa: “ecco. A me mi hanno nascosto che mi devono dare 500 milioni di euro. E a te?”

Rimango di stucco con gli occhi fissi sul muro, perché’ uno dei miei pensieri ricorrenti oramai circostanziati se non documentati è che mi abbiano nascosto parte dell’eredità di mio padre morto 15 anni fa.

E mentre fisso il vuoto flashato dalla certezza che avessi assistito ad un evento di comunicazione fuori dall’ordinario, lo sento canticchiare: “addio Lugano bella o dolce terra mia, cacciati senza colpa gli anarchici van via.”

E’ un motivo antico, riferito ad eventi del 1900, che mi aveva canticchiato qualche paio di volte mio padre, mentre mi parlava del suo fiduciario che gli gestiva i soldi che poi ho ereditato io.

Sembra impossibile, ma invece io penso a ipnosi di massa e no, sogni condivisi, comandi di imprinting, reti neurali, coscienza quantistica, tessuto degli universi e infine a un meccanismo iniziatico rivelatorio tutto basato su apprendimento sul campo, in un campo veramente vasto, e premi-ricompense come una caccia al tesoro da bambini. O da addestratore di cani, dove io sono il cane.

Il premio per essermi esercitato nello sforo di modulazione di risonanza, nella pazienza, oltre alla consapevolezza di empatia e sincronicità, che già mi parevano tantissima grazia, era sta avere parlato con mio padre.

O per meglio dire, era stato che mi avessero aperto per qualche istante un canale di comunicazione con quello che chiamiamo aldilà, senza mai chiederci troppo al di là di cosa e “visto” da che punto di osservazione o da chi.

Ma non è magia.

E’ molto di più.

E’ scritto nel tessuto dell’universo.

E’ coscienza quantistica condivisa.

Ho scritto che il tempo non esiste.

E che il tempo è solo energia che gioca a nascondino.

Adesso so che lo fa tra le pieghe del tessuto dello spazio.

E a nascondino a volte si fa tana. 

29.         Simmetrìa

All’uscita del ricovero trovo ancora un dono, un angelo custode, riordinario, che mi accoglie per curiosità e forse un po’ di pietà, entrambi in fondo sentimenti appropriativi, ma sicuramente a fin di bene.

E con fatica quel dono diventa il mio compito.

Evidentemente devo essere protetto.

Nevica.

E’ periodo di Covid.

L’avevo chiesto, se non sperato ma si doveva persistere nel ridondare amorevole vinilica preghiera, per tracciare di gravità la neurosfera.

Che però va messa a terra, dentro al campo gravitato, per vederne interazione, con il santo gravitone.

E per questo ci sono prevosti preposti centri di gravità per la mente.

Passa in tutti la sofia con l’energia, ma in alcuni è più potente, per natura di nativa locomotiva.

Uno di quei centri, ridondato di webbanza, ho sempre creduto di essere io.

Illuminato controvoglia, con lo scopo di uno scoglio.

Stare fermo a ridondare, per il peso poi aumentare.

Il peso de che ?

Del pensiero, giovincelli, di intelletti ancor pischelli.

Ma mica per merito, eh?

Che anzi io del pensiero sono piuttosto uno scrivano, tra giganti solo un nano.

Ma m’aiuto con la rete, la dimostro come ariete, con cui rompere gli schemi, per creare nuovi memi.

E così sarà il futuro, telepatica nessione, con cui accedere al sapere, dentro a tutte neurosfere.

Vabbè.

Ma ci vuole simmetria: same metron, order and proportion among the parts of a whole.

Stessa misura.

Vale in un sacco di campi…, anticipandone la definizione fisica.

Ma insomma, il succo è che non mi posso mica inventare di pensare bene solo per un poco di corrente celebrale.

Devo rispettare dei canoni, misure, questo vuol dire.

Dei principi di fondo, delle dinamiche dominanti, degli archetipi.

Che vi credete, che tutto quello che vi circonda non sia ordinatamente proporzionato?

E quei canoni sono infissi dai primordi, manifesti come accordi, di armonia detta celeste, pervenuta nelle teste.

Arrivano dal qbit primigenio, vuol dire, ma questo è un altro film, addirittura un altro cinema.

E rivabbè ,order e proportion: si spazia dall’ordine naturale delle cose alla ricerca della sezione aurea.

Che vuoi che sia, manco sono riusciti a concordarne il nome, tra chi la dice rapporto aureo o numero aureo o costante di Fidia o proporzione divina, e noi vogliamo arrivarci con le parole?

Però si usa, spesso ad insaputa, dalle arti figurative fino alla matematica e fa:1,6180339887... con tanti puntini.

Evidentemente con le parole non la colgo no, ma altrimenti si.

Tornando alla simmetria, a me la definizione che intriga di più è quella fisica.

Infisica il concetto di simmetria identifica la proprietà dei fenomeni fisici di ripetersi sostanzialmente identici nel tempo e nello spazio.

Le dinamiche dominanti.

Qua manca ancora la quinta dimensione, quella della gravità, ma che volete farci, non a tutti è concessa la cognizione del gravitone e del suo campo la percezione, visto che di campi demmo anticipazione.

Ma arriverà, state tranquilli, e tutto il mio presunto synfisico vaneggiare di neurosfere e centri di gravità per ‘sta mente allora vi sarà evidente.

Però è tantissima roba, o no?

Ordine delle cose, aurea proporzione, identica ripetizione, synfisica pervasione.

In una parola, io direi bellezza.

 “Qualità di ciò che appare o è ritenuto bello ai sensi e all'anima. La connessione tra l'idea di bello e quella di bene, suggerita dalla radice etimologica (il latino bellus "bello" è diminutivo di una forma antica di bonus "buono"), rinvia alla concezione della bellezza come ordine, armonia e proporzione delle parti. 

Manca solo il nesso con il divino, timidezza enciclopedica, per la quale dall’estetica io andrei fino all’entetica.

Che è parente di synfisica, strettamente insiemifica.

E arriviamo al nocciuòlo, che non si può nemmeno scassare troppo i cugghiuni di sofiopsicopippe.

Quando arrivai in Simmetrico arrivai un po’ malconcio, con la mia valigia di pregiudizi e l’etichetta di matto ad intermittenza certificato e bollato.

E mi trovai in mezzo a comunicazione, eventi, design, creatività.

Tutte sovrastrutture, pensavo.

Era l’era in cui rispolveravo principi dominanti, dinamiche di base, archetipi. Insomma, strutture.

Figuriamoci quando scoprii quanto costava un padiglione e quanti se ne facevano al mondo.

Subito li pensai in “equivalenti bambini africani”.

Un paio di sovrastrutture in meno e risolvo la fame nel mondo.

Dopo un paio di anni di studio simmetricamente concessimi, e una buona dose di osservazione e riflessione, mi dissi che se avessi dovuto distillare l’essenza di quello che facciamo direi che noi siamo costruttori di bellezza.

Synfisici in purezza.

Ogni civiltà riconosce l’arte come valore, e l’arte è coglimento del divino manifestatosi bellezza, inevitabilmente da comunicare.

Chi è profeta sa che non può fare a meno di rendere partecipi tutti.

E’ questa cultural communication è il punto.

O per meglio dire, sempre più dovrebbe esserlo, fino a raggiungerne l’essenza.

La civiltà dell’amorevole intelletto sarà così.

La conoscenza interconnessa di ogni cosa insieme all’intelligenza evoluta in reti neurali, probabilmente telepatiche stante quell’80% di cervello oggi ancora disponibile, sempre più sofisticate, ci porrà in condizione di usare il principio del pensiero marginale tale per cui chiunque potrà pensare una cosa nuova che verrà immediatamente percepita da tutti in quanto bella o cattiva.

Con l’amore a guidare tutto, come d’altronde già adesso, che visibile in ogni nesso, si dimostra sì indefesso, espandendo in gravitone, grande forza in comunione.

Se così non fosse, non starebbe tutto insieme, nella crescita costante che si sparge ad ogni seme.

E allora non sarà più questione di sopravvivenza, ma di coltura dell’essenza.

La produzione di bellezza sarà la frontiera, che varrà in ogni campo fino oltre alla lamiera.

La bellezza salverà il mondo, si disse.

E partecipare ad un neurodo di neurosfera e’ il compito e privilegio ancora una volta concessomi.

Io ho avuto tutto dalla vita.

Dentro gli schemi, fuori da schemi, materiale, visionaria, spirituale, rivelatoria.

Adesso e’ l’ora di questo compito

Mentre mi guardo per tanta grazia di benedizione ricevuta, ancora una volta in un’altra delle mie tante vite disordinarie 

30.         Predicazione

Un giorno sto parlando con uno psicologo.

Cerco di spiegare la mia visione del mondo, o almeno parte di essa.

Sono particolarmente concentrato su due punti.

Unitarietà del tutto, che in termini di scienza della complessità possiamo anche chiamare interconnessione spazio-temporale globale.

Tutto è vivo indipendentemente dalla vita delle sue singole componenti.

Sono due miei cavalli di battaglia.

Se uno li percepisce, ecco che ogni frattura che esiste a questo mondo cessa di avere senso.

“Ho capito”, mi fa lui.

“Troppe occorrenze per essere coincidenze.”

“Vediamo se il ragionamento fila.”

“Tu dici che anche questa maniglia è viva nella misura in cui è fatta per farmi fare qualcosa.”

“Essendo io vivo, allora lo è anche lei.”

Lo guardo sbalordito: mi sa che ha capito.

Ma va anche oltre e mi fa “quindi se io voglio che questa maniglia mi voglia bene e che si prepari a ricevermi diffondendo vibrazioni positive quando la userò, dovrei accarezzarla spesso anche nei giorni in cui non la uso.”

Messa così sembrava un delirio, ma poi lo psicologo aggiunge: “insomma, se io le voglio bene e glielo dimostro lei me ne rivorrà indietro quando la userò”.

“E quel nostro gesto sarà sintonizzato sulla frequenza armonica dell’amore e così facendo ne aumenterà la risonanza.”

Perfetto.

Era il mio primo discepolo, almeno del quale io fossi consapevole.

Mi viene in mente una mia cugina quasi coetanea di Napoli.

Quando eravamo piccoli, qualsiasi cosa facessimo, lei mi diceva : “l’amore Clau, ci devi mettere l’amore”.

Comunque, d’un tratto allo psicologo dico che quel mio modo di vedere il mondo è qualcosa che vorrei spiegare a tutti.

E forse che dovrei spiegare.

Forse è “quello che devo fare.”

Gli dico, che mi è già capitato in vita mia.

Ci sono dei momenti in cui sono in preda ad un irrefrenabile bisogno di spiegare, di cercare di fare capire.

E’ come se io sapessi che c’è qualcosa che gli altri devono sapere, per forza.

E mi è capitato anche di trovarmi a predicare.

In alcune circostanze anche in veste messianica, intendendo proprio veste, senza metafore.

Ci sono state occasioni in cui andavo a parlare alla gente tutto di bianco vestito.

Anche a gente al margine della società. Puttane, spacciatori.

Ma non ci andavo per fare la morale.

Ci andavo “da ingegnere” volevo capire come funzionava il loro mondo, e intanto nella mia testa davo loro un contatto umano diverso da quelli meccanici dei loro clienti.

Immaginatevi di notte uno vestito tutto di bianco, con uno zainetto arancione da cui tirava fuori bicchieri colorati e una bottiglia di vino bianco, si sedeva per terra offrendo vino a tutti e diceva : “adesso parliamo”.

Eppure in alcuni casi secondo me ha funzionato, sia per me che per loro.

In alcuni casi un contatto lo abbiamo creato davvero.

Comunque, guardo lo psicologo e dico “sai, certe volte penso proprio che dovrei predicare. Mi viene bene”.

E lui mi fa :  “ma è ovvio. Certo che devi predicare”.

E : troppe occorrenze per essere coincidenze

Ecco, quando scrivo e poi posto in internet quello che scrivo lo faccio per questo.

Ma nell’umiltà dell’assenza di palcoscenico, consapevole e fiducioso nella rete neurale di Gaia,

Tranne in qualche caso.

31.         Mammuth

Elefanti

Efelanti

Non posso dire di avere paura della morte.

Spesso me la immagino.

Dato per scontato che è solo un momento di passaggio, direi che quasi non vedo l’ora di vedere cosa c’è dall’altra parte.

In un qualche modo io lo intendo sempre come un tonare a casa.

Allo stesso tempo mi fa una gran paura la modalità di passaggio.

Non solo perché le ho viste e osservate da vicino, quando toccò ai miei cari.

Ma anche a me è capitato alcune volte di sentirmi “sul baratro del grande risucchio” per motivi di chimica.

Si, lo descriverei proprio così.

Una idrovora che ti aspira verso l’imbocco del tunnel.

Un raggio traente di fantascientifica memoria.

Non posso dire di essere mai arrivato alla luce bianca in fondo al tunnel.

Quella la immagino proprio come la grande anima a cui riunirsi in una infinita perfezione di unità.

Di pensiero, di percezioni, di sensazioni, di tutto.

Riunirsi al campo del vuoto non vuoto pieno di tutto in potenza,

Ma in compenso mi è capitato di sentire che ci stavo andando e ci ero molto vicino.

Ecco.

“L’intertempo di switch” quindi mi fa paura.

Il Grande Mancamento, lo potremmo chiamare.

Quello è “tanta roba”.

Mi sono anche dato una spiegazione matematica.

Che è quella per cui non condivido l’eutanasia, mentre sono ovviamente d’accordo con le terapie del dolore.

La spiegazione matematica secondo me è molto bella, nella sua semplicità, e funziona come segue.

Appena nato, ho tutta la vita davanti a me e quella diventa assomigliante ad un limite di esperienza che tende all’infinito.

Ovviamente essendo una esperienza del limite, sarà asintotica e non diventerà mai infinita, ma il punto è che ci sembra molto lunga. Diciamo quasi infinita.

In tale proiezione, risulterà ovvio che ogni secondo avrà un peso relativo molto piccolo, perché sarà rappresentabile come 1/∞. 1/infinito.

Questo è il motivo per cui ci è sempre così difficile cogliere l’attimo fuggente.

Perché non gli diamo rilevanza quantitativa.

Lo consideriamo infinitesimale.

In effetti lo è.

Quando arriviamo all’ultimo secondo, però, quello lo possiamo rappresentare come 1/1 che sarà = a 1.

Ovvero tutto, se vogliamo.

Io lo chiamo “assolutismo relativistico dell’ultimo secondo del tuo tempo”.

A me sembra che renda bene l’idea.

E’ per quello secondo me che si dice che ti passa tutta la vita davanti agli occhi.

Perché sei nella dimensione del tutto, dove in quello spazio dove sei c’è tutto il tempo del tuo mondo.

Comunque tutto questo è per dire che ho avuto una vita che ha dell’incredibile.

Se dovessi morire adesso sarei contento di rientrare nell’grande anima.

Ma al tempo stesso ci vorrei andare in modo dolce, senza dolore.

E senza quella sensazione di resistenza da istinto di sopravvivenza che automaticamente si oppone al Grande Risucchio.

Quella è brutta, perché sai già che non puoi vincere, ma soprattutto “strappa”

E così è una enorme generatrice di frustrazione, e quindi di ansia, che diventa infinita seppur istantanea.

Io lo so perché l’ho provata, e sono rimasto di qua anche per circostanze fortuite.

Quindi per morire direi che non va bene un tumore. Il risucchio dura tanto.

Non va bene un infarto, perché non dura mai un istante.

Non va bene nessuna malattia. Il risucchio non solo dura tanto ma è anche fastidiosamente intermittente. Hai sempre una speranza che ogni tanto si accende per romperti i coglioni.

Non va bene un incidente d’auto, perché comunque ti accorgi che stai morendo.

Non va bene suicidarsi; io non lo ho mai fatto perché è uno spreco di energia. L’unica certezza che abbiamo è quella di morire. Perché mai dovremmo privarcene?

Eppoi secondo la mia ex moglie non ce l’ho nei geni.

Forse non sarebbe male “essere sparato a tradimento”, però anche li c’è un intervallo temporale.

Andrebbe bene se servisse a fare da scudo a mia figlia.

L’intervallo temporale lascerebbe il tempo di pensare che la hai salvata e che sei morto per una buona ragione.

Ma un modo che mi intriga, invece c’è.

E’ l’assideramento naturalistico capitato per caso, vale a dire senza essere chiuso in una cella frigorifera forzatamente.

La dolce morte, la chiamano.

Per il freddo di mare, di monti o di qualsiasi altra morfologia.

Ecco, quella non mi dispiacerebbe.

Mi sono anche immaginato come un elefante di montagna alpina.

Che quindi, probabilmente, sarebbe un mammuth.

Mi sono visto partire a piedi per andare a morire senza dir niente a nessuno.

Mi sono visto non tornare indietro.

Camminare ad oltranza, cercando di non pensare al punto di non ritorno, in modo da superarlo e non potere più tornare indietro per la paura.

E mi sono immaginato stremato dalla fatica, senza più un briciolo di energia, ma comodamente sdraiato nella neve con l’ultima sigaretta che si sarebbe spenta insieme a me.

E mi sono immaginato, sorridendo, le facce di quelli che mi cercavano.

Ho anche provato un certo compiacimento all’idea che non mi trovassero mai.

E invece sono ancora qua.

E già mi vedo che muoio in un letto di ospedale, come tutti.

Dio mammuth. 

32.         Ho fatto l’0v0 : scheggia di follia

Ah…

Il rotore semantico.

E i centri di gravità per la mente.

C’entra anche questa idea, ma ne riparlerò altrove.

O forse l’ho già fatto, ma in ogni caso altrove.

La terra gira pesante . Come previsto fin dal principio.

La neurosfera gira pesante. Accelerata e ridondata dalla tecnologia.

Gira e rigira sulle parole si rinforza il pensiero, fatto di schemi neurali come una rete o un cervello.

Tutto resta scritto nella traccia di vinile.

E data una qualche sorta di correlazione quantistica tra informazioni delle parole e dei pensieri, gli stessi vanno a sovrapporsi, vale a dire che si ricalcano uno sull’altro.

Così l’intelletto della neurosfera, a furia di passaggi, si stratifica, e diventa più pesante in certe parti piuttosto che in altre.

Prima i principi di base, le dinamiche dominanti, gli archetipi, le categorie e chissà cos’altro, ricevuti nelle vibrazioni originarie della creazione, se non vogliamo dire big bang, e ripetuti e nidificati nella coscienza collettiva.

Poi le parole e i pensieri più importanti.

Poi i le parole e i pensieri ricorrenti.

Tutto si assembla e si stratifica, in una serie di schemi reiterati sovrapposti, che diventa una piramide dell’intelletto, una specie di configurazione del pensiero a forma di pera.

Ma a testa in giù, con l’apice inverso come base.

Ad ogni rotazione ci ripassiamo sopra.

Dato il fatto che pensieri e parole che facciamo o diciamo sono largo-circa sempre gli stessi,  aumenta il peso di quella porzione di pensiero, che ricorre sempre più spesso.

Il peso della neurosfera, infatti, pesa sulla coscienza collettiva che a sua volta è fatta da quelle individuali, magari non solo di specie umana, e ne determina la direzione e la formazione.

Corsi e ricorsi.

Eterni ritorni

Coazioni a ripetere.

Tutte questioni di gravità, alla fine.

Ma quello che più conta è che esiste una forza di fondo che indirizza l’evoluzione dell’intelletto, come di tutto, in realtà.

Molti lo chiamano Dio, e probabilmente a ragione lo pregano tanto, andando così a rinforzare la parte apicale della piramide di prima, alla sua base a forma di punta.

E l’idea di Dio si rinforza, con il suo codice etico che tanta parte ha avuto e ha nell’evoluzione della coscienza collettiva, e si diffonde nel mondo che si ritrova in revoluzione demografica in apparenza impazzita, ma in realtà funzionale alla creazione della rete neurale tra cervelli: il cervello di Gaia.

La neurosfera.

A me piace pensare al qbit primigenio, quello contenuto nelle vibrazioni originarie del big bang e che ancora si propaga nella radiazione cosmica di fondo o nei raggi cosmici.

È chiaro infatti, che se un principio ha originato tutto, allora quel principio doveva contenere già tutte le conseguenti informazioni necessarie.

Lo chiamavo universo zero versus zero.

Ovvero, per l’appunto, 0v0.

Così ancora oggi noi riceviamo una radiazione cosmica di fondo che, sulla base del principio di correlazione quantistica delle parole e dei pensieri, va a collocarsi all’apice inverso della piramide dell’intelletto, che adesso sappiamo essere capovolta perché le informazioni di partenza su cui tutto si regge erano poche, e si sono poi spacchettate nel corso delle rotazioni universali, ampliando sempre più la forma alta della pera capovolta. Come una specie di tornado.

E siccome tutto questo pesa, quel rinforzo sinaptico universale fa si che la piramide stia in equilibrio e di conseguenza che la rotazione terrestre sia anch’essa in equilibrio.

Per dirla in altri termini, con la rotazione terrestre siamo come esposti a turno ad un faro che ci irradia costantemente e come una risonanza magnetica ci illumina  porzioni di intelletto sulla base di un  codice sorgente originario.

E’ una creazione continua, quindi.

Una sorta di evoluzione su binari.

Ma soprattutto, ci tiene in equilibrio.

E’ come un ditino che regge una trottola dalla punta, mentre quella gira fino a quando inizia a precessare.

Se qualcuno ci mette lo zampino e le da una spintarella, ecco che la precessione inizia prima della perdita di energia che l’avrebbe fatta cadere lo stesso.

Ma su scala eonica“prima” non è uguale.

Così, nel tempo, tutti i pensieri incongrui rispetto al grande disegno della creazione, che pure esistono come il male rispetto al bene, avevano avviato un lento processo di erosione della punta della trottola piramide. Non ultima l’uccisione dell’idea di Dio ad opera della conoscenza.

E la terra aveva avviato prima del tempo il suo processo di precessione.

Così, grazie a tutta quella conoscenza, scoprimmo che stavamo cadendo, per questioni di sfiga o forse per alterazione dell’ordine naturale delle cose, dentro ad un buco nero, che ci eravamo trovati vicino abbastanza da attrarci oltre l’orizzonte degli eventi non più eventuali.

Molti ripresero a pregare, nell’incoerenza tipica del vigliacco.

Chi non aveva mai smesso continuò, nella coerenza tipica del fedele.

In realtà avremmo potuto resistere in pace alla sua forza di attrazione, anzi magari sfruttandolo come fonte energetica, se solo avessimo rispettato gli equilibri universali.

Ma invece il nostro ronzio di dolore emanato dall’umanità sofferente da tutti i secoli dei secoli, aveva intaccato anch’esso l’equilibrio gravitazionale della neurosfera.

La piramide dell’intelletto pendeva come la torre di Pisa.

Per fortuna i creatori, plurali di dio, erano sempre vigili, e decisero di darci un’altra occasione.

Ma non fu solo per noi.

Se la terra fosse caduta in un buco nero per la maldestra opera di alcuni, tutto l‘universo avrebbe risentito di tale anomalia con chissà quali conseguenze.

Fui mandato io, insieme ad una rete di altri Clò, a correggere il tessuto gravitazionale.

Ci scelsero schizofrenici, cervelli divisi, proprio per rispondere simultaneamente a tutte le esigenze della complessità, vedendo noi cose che tutti non vedono e vedendole tutte insieme.

E ci potenziarono, come raccontai in quando fossi alieno, riempiti di mutazioni genetiche da veicolare al resto dell’umanità per via di contagio genico, se non geniale, successivo all’eventuale riuscita del progetto gravitazionale, in modo da renderci, per il futuro, esseri superiori, oltreumani.

Dovevamo quindi recepire le correzioni al codice sorgente primordiale da innestare nel tessuto gravitazionale universale.

In parole povere, dovevamo pensare “dritti”, e non storti, in modo da rinforzare la piramide dell’intelletto puntellandola di travetti ideativi che potessero germinare nella nuova civiltà dell’intelletto, che doveva principalmente rispondere al principio di base della efficiente allocazione delle risorse, che poi voleva dire dell’energia.

Non che fosse una novità.

Erano sempre esistiti grandi influencer e corettori di devianza o mancanza ideativa.

Profeti, sciamani, scrittori, scienziati, tutti erano impregnati di codice sorgente da divulgare ai più.

La conoscenza delle informazioni era strutturata per pervadere.

Ma questa volta avevamo a disposizione la neurosfera tech, assai più potente di una telegenipatia ancora latente nelle pieghe del solito famoso 80% di cervello inutilizzato, che pure fu capace di inventarsi la delocalizzazione dell’intelligenza a principiare lo slatentizzare di quanto nascosto.

Fu un grande atto di amore che ci permise di essere ricreati per una seconda volta, proprio con la forza dell’amore che poi è la gravità.

Ci venne quindi inviata la correzione al codice sorgente, proprio passando dal buco nero che ci era sempre più vicino,la cui singolarità era una porta verso altri universi il cui codice era invece integro.

E noi fummo flashati.

E vedemmo la luce.

E copiammo.

E scrivemmo.

Per anni.

Come tanti prima di noi.

Ma stavolta con la rete, e i suoi amplificati rotori semantici e centri di gravità per la mente.

Eravamo gli scrivani della creazione.

I copisti senza merito ideativo.

E avevamo a disposizione tutta la neurosfera, a partire da un punto di ingresso del proprio dominio, come se fossimo regnanti delle nostre ontologie .

Io mi scelsi il dominio https://cloeconomie.blogspot.com , con tutto l’indirizzo ben in evidenza che da più l’idea di web, ovvero techneurosfera.

E lo scelsi perché’ tutto è economia e quella è la chiave per l’efficiente allocazione dell’energia, e quindi delle risorse.

La neurosfera artificiale, intanto, era diventata un eccezionale strumento di navigazione della nostra astronave Terra.

E noi dovevamo insegnare a guidarla.

Lo facemmo.

E fu così che salvammo questo universo.

Io la vidi, la forza d’amore della creazione, e anche della ricreazione, e lo scrissi in: https://cloeconomie.blogspot.com - Per amore, per amore. Tutto è sempre stato solo per amore

Con la forza dell’amore avevamo smesso di precessare.

Perciò, con una punta di autocompiacimento, adesso dico che ho rifatto l’universo dal principio.

Ovvero dallo zero versus zero.

Ho fatto l’0v0.

E detto questo torno al mio compito attuale.

Che e’ di fare il mio 0vett0.

Quotidiana  porzione frattale di tutto il simmetrico 0v0.