mercoledì 9 dicembre 2015

2015 12 09 - Dirotta la rotta della manipolazione e del pregiudizio. Una presa di posizione. Un colpo di timone.



Le Clofrenì
(Les Claufrenìes)


dirotta la rotta della manipolazione e del pregiudizio



Una presa di posizione, un colpo di timone.



1          Una presa di posizione, un colpo di timone

Gli scritti seguenti nascono anche in relazione dalla mia esperienza di partecipazione alle attività del Gruppo Rari &Venti, attivo sull’ argomento della sensibilizzazione ai temi della salute mentale.
Intento originario era di pubblicare una raccolta di scritti vari tra alcuni mesi.
L’escalation di deriva ideativa che percepisco montare globalmente mi ha però suggerito di postare adesso quelli in allegato, come potenziale antidoto alla deriva stessa.
Li pubblico senza che il Gruppo ne sia a conoscenza, ma confido nella loro empatìa.
In ogni caso qualsiasi idea o parola che possa risultare offensiva o fastidiosa e’ frutto esclusivo della mia sola ideazione e responsabilità.
Spero che in questo modo possiamo contribuire a dare un colpo di timone che aiuti a dirottarci sulla rotta giusta.
Non ha senso studiare e scrivere, se poi non caliamo il tutto nella realta’.
In tal senso ho deciso, quindi, di prendere pubblicamente posizione.


2          Sommario





3          La normale salute mentale


La salute qui versale,
del mentale e’ la normale.
Vale ovunque tra universi,
tranne dove ancor s’e’ persi.

Da vicino e da lontano,
siamo tutti sola norma.
Non e’ vero che nessuno,
sia, da prossimo, normale.

Questo e’ dunque il ciò che vale.
Lumicino e vaticinio.
Se guardati da vicino,
vedrai in tutti la normale.

La normale che intendiamo,
e’ davvero cosa chiara;
distribuisce tutti i casi,
all’intorno di una media.

E’ così che vi dimostra,
che seppur non tutti uguali,
c’e’ uno spazio entro il quale,
il nostro stare e’ funzionale.

“A che cosa funzionale?”
Chiederete artificiali.
Questo e’ ovvio, miei signori:
a crear mondi reali.

Tutto quanto v’inventiate,
per a voi dare importanza,
e’ soltanto un artificio,
che per altri e’ sacrificio.

Mentre voi giocate ai dotti,
sciorinando pur teorie,
qui qualcuno sogna vitti,
la nascosti in una media.

E cosa e’ una tal devianza,
con si grave mal di panza,
se non gran chiaroveggenza,
di palese e greve demenza?


Se ti scappa qualche nesso,
tutti addosso a dirti fesso.
Non sia mai che rompi il cazzo,
tutti addosso a dirti pazzo.

Ma chi e’ matto per davvero ?
Chi fa danni quanto impero.
Vi par peggio un poverello,
o un Attila novello ?

Ecco a voi il nuovo soldo,
che misura il  manigoldo;
metta all’ indice il pazzo,
che dei danni paghi il pizzo.

Hai pensato fuori norma ?
Ti sei posto oltre l’asse ?
Molto bene, puoi provare,
del tuo danno il contrappasso.

E così vedrete tutti,
che asportati i veri matti,
dall’inferno quaggiù in terra,
ci troviamo nel dopoguerra.

Si potrà ricostruire.
Si farà nell’abbellire,
che le menti d’acuire,
sognano sempre a non finire.





4          Normale

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
L'aggettivo normale sta solitamente a indicare la mancanza di fattori eccezionali.

4.1     Matematica

  • In matematica e in fisica, l'aggettivo normale è spesso erroneamente considerato sinonimo di perpendicolare, stante che la perpendicolare attiene a un particolare segmento o piano o vettore ortogonale a un piano orizzontale (filo a piombo). Si parla quindi ad esempio di retta normale ad un piano, di componente normale di un vettore, ecc.
  • La normale è un sostantivo indicante un vettore normale ad una superficie
  • la normale è una variabile casuale molto importante, detta anche gaussiana.
  • Con forma normale si intende anche la forma più semplice a cui possono essere condotte le equazioni e disequazioni

4.2     Chimica

  • In chimica con condizione normale (c.n.) si intende condizione convenzionale di temperatura e pressione in cui eseguire misure. Alpha test riporta la normale come un'unità di misura.

4.3     Scuola Normale


5          Distribuzione normale

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Nella teoria della probabilità la distribuzione normale, o di Gauss (o gaussiana) dal nome del matematico tedesco Carl Friederich Gauss, è una distribuzione di probabilità continua che è spesso usata come prima approssimazione per descrivere variabili casuali a valori reali che tendono a concentrarsi attorno a un singolo valor medio. Il grafico della funzione di densità di probabilità associata è simmetrico e ha una forma a campana, nota come Campana di Gauss (o anche come curva degli errori, curva a campana, ogiva).
La distribuzione normale è considerata il caso base delle distribuzioni di probabilità continue a causa del suo ruolo nel teorema del limite centrale. Più specificamente, assumendo certe condizioni, la somma di n variabili casuali con media e varianza finite tende a una distribuzione normale al tendere di n all'infinito. Grazie a questo teorema, la distribuzione normale si incontra spesso nelle applicazioni pratiche, venendo usata in statistica e nelle scienze naturali e sociali[1] come un semplice modello per fenomeni complessi.
La distribuzione normale dipende da due parametri, la media μ e la varianza σ2, ed è indicata tradizionalmente con: \ N(\mu;\sigma^2).[2]

5.1     Storia

Gauss descrisse la "distribuzione normale" studiando il moto dei corpi celesti.
Altri la usavano per descrivere fenomeni anche molto diversi come i colpi di sfortuna nel gioco d'azzardo o la distribuzione dei tiri attorno ai bersagli. Da qui i nomi "curva di Gauss" e "curva degli errori":
Può essere interessante notare che nel 1809 il matematico americano Adrain pubblicò due derivazioni della legge normale di probabilità, simultaneamente ed indipendentemente da Gauss.[3]
I suoi lavori rimasero ampiamente ignorati dalla comunità scientifica fino al 1871, allorché furono "riscoperti" da Cleveland Abbe.[4]
Nel 1835 Quételet pubblicò uno scritto nel quale, fra le altre cose, c'erano i dati riguardanti la misura del torace di soldati scozzesi e la statura dei militari di leva francesi. Quételet mostrò come tali dati si distribuivano come una "Gaussiana", ma non andò oltre.
Fu Galton a intuire che la curva in questione, da lui detta anche "ogiva", poteva essere applicata a fenomeni anche molto diversi, e non solo ad "errori". Questa idea di curva per descrivere i "dati" in generale portò ad usare il termine "Normale", in quanto rappresentava un substrato "normale" ovvero la "norma" per qualsiasi distribuzione presente in natura.
Nel tentativo di confrontare curve diverse, Galton - in mancanza di strumenti adeguati - si limitò ad usare due soli parametri: la media e la varianza, dando così inizio alla statistica parametrica.


6          Un tram chiamato Norma

Gli spostamenti, che poi sono piccoli viaggi, non sono tutti uguali.
Una cosa che li differenzia parecchio è il mezzo su cui si fanno.
Ogni mezzo, infatti, ha dentro di se una diversa visione del mondo che attraversa.
Ma ha anche diverse conoscenze che lo rendono quello che è. Che lo fanno funzionare.
E ognuno e’ più o meno zen.
Per me si può definire una graduatoria a seconda di quanto armonici si sia con lo spazio in cui si viaggia.
A piedi, per me, è “il top dell’armonico”.
Forse c’è anche la barca, è vero. E’ assolutamente armonica, ma ha due mancanze fondamentali.
La prima e’ che non si fa fatica.
E la seconda e’ che voglio svelare in segreto una mia recente mirabolante scoperta. Almeno fino al tempo in cui si scioglierà tutto il ghiaccio dei poli, a Milano non c’e’ il mare.
E navigare sui Navigli, se non sei un poeta legale, ha la stessa poesia che ha cavalcare un metrò “su una vecchia pista da elefanti stesa sopra al macadam”. Come cantava Paolo Conte, pur pensando a un tram, in quel piccolo capolavoro di poesia che e’ lo sparring partner  cui gli applausi son dovuti per amore.
Comunque, subito dopo i piedi e la barca, c’è la bici. Perché si viaggia nello spazio in compagnia delle dinamiche di fisica e meccanica.
Poi la moto, che viene dopo perché la produzione di energia necessaria non è più generata dai muscoli e dalla fatica, ma è delegata ad un motore. Però si rimane dentro lo spazio da attraversare.
Poi la macchina, che rispetto alla moto chiude fuori il mondo esterno e ci fa diventare un corpo estraneo.
Poi il treno, che oltre a quello che fa la macchina, ci priva già in partenza di ogni idea di libertà, non solo perché non lo guido, ma anche perché va dritto da un punto ad un altro senza possibili altre opzioni, nemmeno ideative.
Infine l’aereo, che non solo fa come il treno, ma ci rende completamente avulsi dallo spazio e da tutto, proiettandoci in una dimensione fantastica: quella delle sardine inscatolate volanti.
E poi c’e’ la mosca ....gialla.
Ne esiste soltanto una piccolissima quantità che vive per lo più nascosta in grandi alveari urbani fatti di cemento e stanghe di ferro incastonate nei pavimenti.
Con le sue forme di geometria antica, resta in letargo tutto l’anno, cibandosi di ricordi ancorati alle sue sedute di falegnameria, piccole applique liberty e finestrini a cremagliera.
Se sei fortunato e vivi in città come Milano, anzi…solo a Milano, la potrai incontrare in quell’unico giorno dell’anno nel quale esce dal letargo e si lascia pazientemente rotolare in giro, signora delle sue vie, al ritmo del suo carico di Raripanti e variamente festanti sacripanti tanti.
Chi dovesse incontrarla vedrebbe che bel mare che c’e’.
E’ infatti questo il bel mare di Lombardia.
Il mare dove navigare a Milano, lo troverete attaccati ad un tram chiamato Norma.
E’ il tram della normale salute mentale.
Ad essere più precisi, non e’ un tram su cui navigare, ma e’ un tram che nuota in quel mare di cittadino con te appesoci addosso come ad un salvagente.
La prima volta che l’ho preso ero da poco uscito dal reparto di psichiatria del Fatebenefratelli.
O forse non ero uscito da tanto poco, ma a me sembrava poco per quel perverso principio con cui il tempo si dilata e non passa mai quando e’ un tempo brutto, mentre si allunga e finisce subito quando stai bene.
Mi trovai con iniziale imbarazzo a girare per la città in una situazione pubblica, a contatto, seppur fugace, con un sacco di gente.
Alla fine della giornata, la sequenza di incontri e piccoli contatti umani mi aveva posseduto, e quando arrivò il momento di andare a casa avrei voluto indirizzarmici in tram, su una mia linea privata che avesse girato in eterno. La mia linea C.
La seconda volta, vale a dire un anno dopo, certi Raripanti mi sorpresero ancora di più.
Sempre affogato in un bagno di emozioni per il contatto con un sacco di gente, tra cui moltissimi curiosi, scoprii che a Norma piaceva anche ospitare concerti rock.
Un maestro suonava, con la pancia della sua chitarra, un motivetto battente che cantava qualcosa come : “centro e ricentro, basso il baricentro, siamo l’epicentro, venuti tutti dentro”.
Roba di evidente genesi malata, probabilmente originata da qualche mente ancora in cura in reparto, che pareva riferirsi ad un metaforico, o paraforico, centro di gravità per la mente puntato sulla città dominio, già stato, di Norma.
Ma appunto per questo suo evidente contenuto altalenante di terapie e malattie, il motivetto fu assai commovente, a dispetto di una certa strutturazione vagamente punk.
La terza volta, arrivati in centro, ci fu l’apoteosi.
Ora. Bisogna precisare che i confini tra salute  e malattia sono spesso sottili.
Assai di frequente capita che chi si presumerebbe sano, adotti atteggiamenti e comportamenti palesemente categorizzabili come “fuori”.
Il che  e’ di per se stesso una bella dimostrazione dei danni che può creare il desiderio di categorizzare.
Si nasce categorici.
Si muore stigmatici.
Ma nel nostro caso invece non c’e’ dubbio.
Alcuni Raripanti, loro molto astigmatici ma completamente matti, si erano inventati un gioco dalla evidente connotazione di follia.
Il tiro allo stigma con bersagli e pallette di velcro, con tanto di mezzibusti stigmatici e conto alla rovescia proteso all’azzeramento del valore di ogni pregiudizio.
Insomma, sul tram si avvicendavano “velcrocecchini” che ogni volta che colpivano un bersaglio facevano scendere il “serbatoio punti” di quell’agente dello stigma.
In tutto questo, io che ero alla mia Norma alla terza (era la terza volta che partecipavo al tram), ed ero orami a cuore piuttosto aperto, questa volta cercai di metterci del mio.
Il mio ruolo, congruo con la mia estrazione scolastica, era di fare il contabile dello “scaricamento” del serbatoio punti.
In alcuni casi devo ora confessare che feci come fanno tanti grandi “taroccatori di conti” sulle spalle della povera gente.
Ma io lo feci a fin di bene.
Si, il tempo e’  maturo e io devo liberarmi la coscienza dai sensi di colpa che mi tormentano.
Ricorderò, spero per sempre, le facce illuminate di gioia di alcune “persone pazienti” che magari non riuscivano a centrare subito il bersaglio; ma io li facevo ritentare a oltranza.
Fino a che centravano un “10 punti” e io dicevo loro autoritario: “non era un 10. Era un 50! Ho visto bene io”.
Ogni risata strappata, mi risuona ancora dentro.
E spero che a loro abbia dato un po’ di vita in più. 

Mentre scrivevo questo raccontino, ho incontrato un amico e gliel’ho fatto leggere.
Alla fine lui mi fa : “scusa, ma il tram non e’ maschio ? “
“Come fa a chiamarsi Norma ?”

Mentre ripensavo alla perfidia delle categorie, ho risposto :
“Beh, che c’e’ ci strano ?
Sarà una trammessa.
O forse sarà un trams.
Noi astigmatici, quando c’e’ da combattere lo stigma, vi lovviamo tutti quanti.”



7          L’incipit dello stigma, il raro privativo e la lingua del Raro. Surrealismo, associazioni, sconnessioni e riconnessioni del Raro che fa il Faro anche noto come Fraro.

Ovvero:  quando il linguaggio del Raro diventa battito d’ali di un bassotto che alle otto ogni mattina si alza in volo dalla boscaglia per andare di  pattuglia nella jungla delle idee a stanare da bambinello da smorzare sul più bello ogni primo fuocherello d’incipit di stigma già, o mo, spuntato ma per fortuna ancor novello.
Quando il Raro si fa faro, e la parola e’ un pipistrello, anche un fronzolo friulano può associarsi ad un friariello.
Il quale e’ sia un vegetale tipico del sud, sia un simpatico vezzeggiativo evocativo proprio per onomatopea del nostro Fraro.
A quel punto sei a Milano,  la cassoeula e’ a Positano, e se e’ ora di mangiare, un sol porco puoi evocare.
E’ il maiale l’essere porco, che la fame rende uguale: quando hai fame da schiattare,  la salsiccia e’ universale.
Fromboliere di parole, provo a fare il giocoliere, per vedere se volano a-frivole le parole più leggere.
Colibrì fino a Partenope trovo un nobile di scarto, forse resto di un maiale, entra al circolo a giocare.
Colibrì parto da qui, si, ma poi dopo viaggio a lì. E siccome il viaggio e’ lungo,  me lo faccio anche sul treno. Colibrì di meridione, sempre pigro non son fesso, viaggio in treno pur se in classe bi, o B,  a dir due,  proprio come il nobile sclassato, pure  simile a tal italo, replicante treno rosso che non serve proprio a un casso.
Tranquilli tutti : e’ solo psicanalisi. Associamo libertà, e pure in, un po’ qua ed un po’ la.
Servirebbe anche al conte, che nel circolo fa il bisonte: come in cristalleria, sfascia tutto e poi va via.
Non ha soldi il poverello. E’ arrogante nel cervello. Come spesso a loro accade, si crogiuola nel privilegio, senza sapere d’esser malato. E adesso ve lo renderemo dimostrato.
E’ l’autismo che lo guida: ogni nobile che ho incontrato crede, almeno in una qualche monoporzioncina, d’esser dio.
Solamente per qualche gene, in cui lui confida e ha fede per dogmatica prescrizione di famiglia.
Ah, se solo sapesse che di geni ne abbiamo così tanti, e che ancora c’e’ chi dice che non sappiamo a cosa servono tutti. O almeno non sappiamo a cosa servono tutte le loro possibili combinazioni interne e/o per rapporto al mondo esterno.
Si perche’ se lo sapesse, sapesse pure che e’ invece provato che più ne abbiamo e più combinazioni possibili otteniamo, e che quelle combinazioni vengono attivate o tornano utili in base agli stimoli esterni che riceviamo, dalla chimica alla luce a chissà cos’altro.
Allora capirebbe all’istante, che quel suo gene dominante non e’ una benedizione ma anzi e’ la causa prima del suo non esser sacripante, figurarsi raripante.
Ma stai delirando, direte voi ?
No tranquilli, alla fine emergerà un senso. Almeno questo e’ il senso a cui penso mentre son denso nel rifiutare il censo con il nonsenso.
Insomma, il nobile va al circolo e siccome non ha soldi, perche’ e’  decaduto e di certo senza eleganza nel rispetto del paradigma in reciprocità che dice che signori si nasce e poi ci si muore pure, e ritorno, si fa addebitare l’importo nel registro debitori.
Il ragioniere gli fa : “conte, io scrivo eh?”
E lui risponde : “scrivi, scrivi”.
Vanno avanti così per qualche giorno fino a che il ragioniere chiama il direttore perche’ oramai il debito e’ tanto. Il direttore dice : “Conte, lei ci ha detto di scrivere, scrivere, e noi abbiamo scritto, scritto. E mo ?”
Mo, per chi già non lo saccia, e’ un’abbreviazione latina di “modo”, usata spesso anche da Dante, la quale testimonia la profondità delle radici del napoletano il quale e’ sibbene lingua di re e di signori, troppo spesso vituperata da personaggetti in varia guisa versanti in stato evidente di affanno mentale.
Con tanti ringraziamenti a chi non cozza con la picozza, ma aggiunge una erre con cui schermisce e irretisce con quel fioretto che non da sciabolate, ma pare un dispetto e che a me sa tanto di cazzimmetta.
Si lo so, siete sempre più sconcertati, ma abbiate fede. Vedrete che si arriva da qualche parte. In questo caso tenete a mente tre cose importanti:
1.      che c’e’ lingua e lingua.
2.      che per usare a proposito una lingua bisogna conoscerla.
3.      che per conoscerla bisogna percorrerla con costanza in sempre maggiori spirali di profondità.
In una scala da uno a dieci io mi do una sufficienza risicata. E tra poco capirete perche’.
Spero che ne riparleremo tra una decina d’anni per vedere l’effetto che fa. Proprio come se volessimo andare allo zoo comunale, per vedere le fiere, bestie, feroci annidate nei meandri dei nostri pensieri.
Comunque torniamo al nobile che guarda il ragioniere e il direttore, e tutto tronfio nel suo petto gonfio firma il suo epitaffio suicidando l’eleganza che non  ha con un raffio profferendo tutto d’un soffio : “e mo, lieggi, lieggi”.
Lieggi non e’ una città belga pronunciata in romanesco, ma sta per “leggi”, voce del verbo leggere, indicativo presente, seconda persona singolare. A Napoli, come in tutta Italia.
E “mo leggi” vuol dire qual cosa del tipo “cavoli vostri”.
Arroganza del privilegio genetico, cvd. Come volevasi dimostrare.
Ma qui arriva la sorpresa : una lingua antica ha avuto tempo, o fortuna, o adeguate circostanze, o altri divini interventi,  di costruire sovrapposizioni e moltiplicazioni varie, tali che la rendano complessa.
E così scopriamo che a Napoli “lieggi” vuole anche dire “leggeri”.
Oh. Quanta poesia. Nel senso di quanta utilità poetica in pratici quanti monoporzione. Una parola, due significati a seconda del contesto.
Ho letto che Shakespeare usava circa 30.000 parole, ma con circa 100.000 significati utili.
Noi siamo a due significati a parola. Solo per “lieggi”. Shakespeare era a 3, ma in media su tutte le sue 30.000 parole. Il che fa una bella differenza rispetto al nostro 2 su una parola sola.
Chissà a quanto si può arrivare.
 Qualcuno prese a riferimento la parola Matrice – Treccani come  un caso paradigmatico di “multisenso” , termine derivato dal “multiverso”,  che vuol dire senso valido in diverse interpretazioni parallele. Per la precisione 6.
E qui però e per dunque e perbacco e pure perdindirindina, si apre il colpo di scena, nel dramma della storia del nostro povero conte.
Se il conte ha detto “leggero”, allora forse la frase “e mo leggi, leggi” non voleva dire “sono cavoli vostri”.
Forse il senso era invece “state leggeri” ovvero “state calmi”.
Nel qual caso avremmo inveito contro il povero nobilastro il quale magari era un astro e non furbastro a libro mastro, mentre noi, come poetastro manco fossimo  Zoroastro, lo inchiodammo a far pollastro allorquando il poverello voleva solo fare il signore con tutto il candore che il suo stupore trasformò in calore avvampato in rossore sulle gote sue chiare in una vergogna per il di se fraintendimento che noi non vedemmo perche’ tutti presi nei nostri nessi precirconflessi attorno ai quali mai ci saremmo creduti fessi. E invece lo fossi.
Bel casino.
Non importa quanti significati ha una parola.
Basta che ne cicchi uno una volta e la frittata e’ fatta.
Quell’errore si instrada e si replica poi da solo, in particolar modo quando e’ un meme, cioe’ una cosa dotata, per vari fattori tra i quali la nostra predisposizione a renderla tale ad esempio se coerente con nostri latenti pregiudizi, di capacità propria di innesto, e di rimesto, in quelle teste un po’ maldestre magari poco lustre di gente un po’ palustre.
Da un piccolo “state calmi” in omissione della nostra intenzione siam riusciti a distruggere intere stirpi credute turpi ma forse  invece no.
E voi che leggete, son sicuro, ci eravate cascati tutti. Quasi tutti. Almeno alcuni, valà.
E quale e’ la nostra lezione ?
E’ duplice e semplice, complici davvero.  
In primo luogo se non avevamo capito un acca era colpa del senso che abbiamo dato a una parolina sola, piccolina piccolina, e quel senso glielo abbiamo dato perche’ era quello che volevamo che avesse. Profezia autoavverante, dunque. Su quella abbiamo costruito castelli interi di teorie e categorie e fantasticherie divenute poi ostracie e pregiudizi di intere specie o classi. Quante saranno le trappole linguistico-semantiche sul cammino della nostra vita di conoscenze o presunte tali più o meno instillateci e poi distillateci nelle nostre coscienze?  
Lo stigma e il pregiudizio nascono insignificanti e poi diventano catastrofi. Questo e’ il punto. Ricordate le stelle cucite sui vestiti degli ebrei. All’inizio era solo una stella, ma solo all’inizio.
Quasi quasi, anzi senza quasi,  mi dico da solo : “la prossima volta che penso, male, mi prendo a schiaffi da solo”.
La seconda lezione che voglio offrirvi e’ ancora più grave. Ho elaborato una struttura narrativa articolata e spiritosa e prolissa e ridondante, una cascata di fuochi d’artificio e paroloni e connessioni e invenzioni, con il preciso intento di manipolarvi, abbagliandovi come animali selvatici inchiodati sull’asfalto della conoscenza dalle luci dei fari di un auto in corsa, in corsa disgraziatamente proprio verso di voi con l’unico scopo di compenetrarvi con l’asfalto per una futile scommessa fatta in un bar sulla invalidità della legge della non compenetrabilità dei corpi.  E almeno alcuni di voi, probabilmente, fino al “lieggi-leggeri” ci sono cascati.
Ma che bella persona, questo raripante : guarda quanto e’ colto. Come usa bene le parole. Non potrà che avere ragione. Dagli addosso al nobilastro. Nichiliamolo orsù. Sarà stata solo un eccezione, o tentata dissimulazione, quella desinenza in Tro che per noi di solito e’ un non però. Oibò.
Ecco, chi vi vuole manipolare costruisce storie simili ancora più articolate e così ci caschiamo tutti.
Inoltre ce le innesta in testa, piano piano a un certo ritmo che e’ studiato adeguato a dar tempo di sedimento.
Mai tutto un ragionamento in fila, ma un pezzetto al mese o a settimana, fino a quando l’esposizione con l’effetto ripetizione, e associazione, anche via imitazione, diventi un cancretto nel cervelletto che ci fa inetto.
Lo abbiamo sotto gli occhi oggi (dicembre 2015) : una campagna battente contro un terrorismo che, nel relativismo di una dimensione totale globale, possiamo definire di nicchia stante l’insussistenza di qualsiasi genocidio nei “nostri” confronti come invece si protrae quello in tanti paesi del mondo per evidenti responsabilità di noi stessi (noi mondo progredito senza virgolette questa volta), e in pochi cicli hebdomadaires (settimanali in francese)  la Francia e’ diventata fascista.
Perdonate il comizietto da personaggetto politico, ma io sono ancora uno di quelli orgoglioso di incazzarmi quando mi raccontano minchiate. Ma per riconoscerle bisogna studiare.
Si perche’ e’ invece una verità quella che il satanasso studia sempre dall’alba dei tempi, ed e’ di certo ben evoluto.
Esiste una sottile differenza tra un assoluto, o essenza, e un suo simulacro dentro al quale innestare un virus.
E un satanasso e’ molto bravo ad usarla a sua utilità. “Ci sono cristiani e mussulmani” : questa e’ una verità. “Ci siamo noi cristiani e loro mussulmani”:  questa piccola iniezione di pronomi e’  una manipolazione.
Basta poco: e d’altronde e’ storia ben nota a chi si dimena tra i tentacoli della piovra del pregiudizio così diffusa nel campo della salute mentale, che noi conosciamo bene mentre loro confondono sempre.
E ora torniamo a noi.
D’altronde che saremmo stati surrealisti e un po’sconnessi seppur interconnessi già ve lo dissi già prima che iniziassi la mia prolissa operazione di profilassi, che a quanto dissi e ridissi potrebbe però anche essere sembrata anafilassi.
Voglio dare alcuni spunti su come comunica un Raripante o almeno un Sacripante, non solo con le sue parole in interconnessione ma anche con le non parole.
Si può giocare con le parole anche come abbiamo fatto noi in precedenza, senza che questo comporti intenti manipolatori. Possiamo scegliere una narrativa articolata e spiritosa e prolissa e ridondante, una cascata di fuochi d’artificio e paroloni e connessioni e invenzioni senza che ciò sia male. Anzi facendo si che sia uno stimolo con cui il cervello giochi ad inseguirsi e acchiappandosi si rinforzi da se stesso le sue connessioni interneuronali, le sue sinapsi, esattamente come i muscoli di un body builder.
Ecco dunque un racconto per voi. Dopo l’introduzione ve lo siete pure meritati.

Piazze, sprazzi, pazzi, lazzi, frizzi, e ..schizzi.
La piazza e’ ancora vuota. E’ bella piazza Selinunte. Ha un non so che, che proprio perche’ non so, descrivere non saprei. Anche se lo vorrei.
Sta li in mezzo alla sua quasiperiferia, prima della periferia più hard e dopo la seconda cerchia dei Navigli che ogni volta che li nomino maledico quell’inizio secolo scorso in cui me li hanno sotterrati, i miei bei Navigli.
Milano e’ una città piccola e geometrica, e già oggi te la giri tutta a piedi o con i mezzi o con la bici. Ma perche’ non li riaprono ‘sti Navigli e l’Atm non pensa ad un “servizio gommoni”? Su, ragazzi. Un po’ di fantasia, anche nel governare! Abbiamo già anche i mezzi. Possiamo usare gommoni confiscati agli scafisti. Anzi, così abbiamo la scusa per continuare a non fare un cazzo in tutto il medio oriente; così ci continuano a mandare i gommoni. Peccato che poi dentro ci mettano tutti quei cristiani, nel senso di anime che in tal senso sono cristiani anche se mussulmani, ma li possiamo sempre usare come barriera corallina artificiale perche’ c’e’ chi dice che sono fatti in replica di certi nostri personaggetti di lega di stronzio resistente a qualsiasi trattamento d’intemperie o antiparassitario. Tanto di base sono quasi umani (un po’ meno, certo), e quindi non gli serve l’acqua salata, va benissimo anche quella dolce dei Navigli.
Già vedo i titoli dei media, sempre sul pezzo quando si tratta di bersi qualche minchiata. Magari stavolta si bevono anche qualche bicchierata d’acqua dei Navigli. Terminale.
Scoperta foresta di posidonie nere in mezzo alla darsena. Pare si tratti di posidonie mutanti, perche’ emanano di continuo vibrazioni sonore che suonano largo circa così: “nozonadare, nozonadare”.
Certo l’indotto della sanità subirebbe un duro colpo: senza inquinamento sai quante malattie in meno.
Ma ho già la soluzione. Ho visto in televisione una nuova pubblicità, bella eh!, di una certa corporation anglofona che si fa chiamare Culeit Incorporated, o simili. Potremmo fare fornire alla regione, che poi ce le rivende a dieci volte tanto perche’ anche le tangenti tengono famiglia (o forse erano le famiglie che tengono tangenti), dei pratici stivaletti contro le infezioni dei morsi delle pantegane e le verruche da pavimentazione asterile della nuova darsena, che pare di essere in una piscina shinyopticalklinker degli anni settanta. Le pantegane le spacciamo come nutrie così diventano specie protetta, non le possiamo ammazzare, e fanno girare questo indotto come un orologgetto concepito da un personaggetto con i neuroni mentali dislocati nel fondo di qualche buco nero. Singolare, non ità: “il” neurone mentale.
Anzi, no. Meglio ancora. Le nutrie le facciamo fare ai “Nozonadare”. Non hanno peli ma sono neri. Gli diamo un buono pasto ogni cento piedi morsicati. Poi se  affogano ci facciamo dei pelliccioti di pelle nera che vendiamo ai fascisti, non si sa mai che siano tornati da marte, che si omologano tutti in  “Nozoskin”.
E se non affogano, …li affoghiamo noi. Anzi no, con l’aiuto dei Nozoskin organizziamo un servizio revival di kapò: che si affoghino tra di loro che non ci sporchiamo le mani. Anzi, noi le mani così ce le laviamo.
Oh, Claudio : eravamo in piazza Selinunte, tu sei finito su Marte passando in gommone sui Navigli. Se non ti spiace potresti tornare qua che c’e’ un racconto da scrivere ?
“Vaffanculo…”….vabbe’. Mo torno.
Allora, mentre ero su Marte, piazza Selinunte si e’ riempita.
Ci troviamo tanti banchetti intelligenti, il palco musicale, una centralina di rete forse dell’Enel che chissà come ci imbordellerà il DNA in queste poche ore che ci stiamo vicino. A proposito: ecco, adesso so da dove arrivavano le posidonie mutanti.
E poi tanta gente, ma non tanto tanta perche’ quanta, ma soprattutto tanta perche’ alquanta varianta in più di cinquanta per niente affranta e nemmeno finta ma molto attenta a seguire con grinta come in attesa di infante nato da incinta con un po’ d’onta che tutti sgomenta, forse pure santa.
Anche questa e’ comunicazione, se conosci l’effetto esposizione e quello di associazione, puoi stimolare l’imitazione e mostrarti a tuo agio in mezzo al disagio di gente perdente, ma almeno in quel momento gaudente.
Naturalmente, non lo devi fare per calcolo ne attenderti un obolo o far l’arruffapopolo ma puoi farti tu bandolo che sbrigli la matassa delle idee della gente in modo gentile, impercettibile, semplicemente lampando la mente di chi fosse demente che diventi vedente.
Insomma, metaforico bombarolo senza tritolo ma con molto bolo che non faccia da abbindolo e non rilasci alcun bossolo risvegliando chi e’ bigolo solo con la presenza; e che “solo” !
Mi commossero due episodi, oltre a un musico malato che intonava un incongruentemente incomprensibile “io sono pazzo”. Vabbe’ se uno se lo dice da solo si vede che e’ vero!
Il primo episodio: le suore. Cuore in giuggiole alla loro vista. Alla festa tutte in pista, le guardai con orgoglio per la tonaca loro, veste di monaca che per la cronaca vidi elegiaca e che mi conduca a confessione pubblica.
Educato di chiesa, prima ancor che italiano, un pochino africano come pure, afghano, cubano, e più in generale di genetica empatica con chi soffre anche fuor d’Africa, vederle alla festa mi destò la testa per mi far ricordare quanto io sia cristiano. Profondo rispetto per tutto ciò che tiene insieme questo mondo, religione in prima configurazione. Ammirazione sincera per la Chiesa intera che io vedo somma organizzazione sintonica con una passione sociale che non posso evitare di sognar comunitariamente comune, e che direi comunista se non vi producesse una svista. O cattocomunista, ancora più svista, ma che rende bene l’idea di un “crasi idealista”.
Tornando in piazza, il discorso e’ che Selinunte e’ e ha un anima proletaria, e alla festa erano presenti proletari di tutti i tipi, molti con al seguito proprio la prole della loro etimologia.
Un prolino, che un giorno diventerà proletarino e poi ario, ad un tratto mi avvicina. Faccia da scugnizzo napoletano ma tzigano. Pelle scura e capelli rossi. Mi guarda e mi fa : “ma tu sei un attore, io ti conosco”.
Io rispondo verità profferendo la parola no.
E i suoi occhi vivaci iniziano a calcolare. Mi chiede che telefono ho. E io rispondo che ho una certa marca.
Lui mi chiede di farglielo vedere, e io non posso non farglielo vedere perche’ mi sembrerebbe discriminatorio. Valuto che non scappa, per una certa empatia negli sguardi.
E infatti lui me lo restituisce. Poi di botto mi chiede quanto costa il mio cane. Domanda a sorpresa piuttosto curiosa anche stizzosa e un poco altezzosa che richiede una chiosa che ci tronchi la prosa scivolando accidiosa prima che diventi angosciosa.
Rispondo che me lo hanno regalato. Comunico in tal modo rispetto per la sua condizione di materialità inferiore alla mia. Vale  a dire che evito di tirare uno schiaffo in faccia alla miseria. Certe volte, quasi tutte, la comunicazione ha bisogno di essere diretta, evitare giri di parole. Se non lo fa molto spesso e’ perche’ vuole manipolare. In gergo tecnico la chiamano proprio ideativa confusa. E’ una tecnica di manipolazione scientifica. Nasce lei confusa e così ti si innesta dentro ai pensieri, replicandosi per confondere te.
Ma lui, il mio maestrino prolino, invece mi promuove.
Mi spalanca un sorriso e mi inizia a fare un sacco di domande su chi siamo, perche’ siamo li, cosa sono i banchetti e così via.
Si vede che vuole capire un mondo diverso dal suo, con tutta la voracità di una giovane fervida mente ancora pulita.
E io mi metto a rispondergli, anche affettuoso, perche’ il ragazzo mi ispira simpatia empatica.
Poi fa per andarsene, ma si ferma subito pensieroso.
Nel banchetto di fianco a noi si vendono biscotti pubblicizzati anche con un cartello scritto in arabo.
Lui si volta verso di me e mi dice, come se fosse lui mio padre: guarda che fate una figuraccia perche’ il cartello e’ sbagliato.
Io lo ringrazio, sorridendo dentro di me, e penso immaginifico: “Houston, contatto avvenuto. Almeno in Selinunte non siamo più alieni”.
E poi penso che la comunicazione e la sociologia e probabilmente tutto il resto si fanno prima di tutto per strada.
Ma se non ci sei nato, per strada, se vuoi che ti parli e che ti insegni, almeno ci devi andare.

“San Gennaro, San Gennaro, fammi vincere alla lotteria…..”
“San Gennaro, San Gennaro, fammi vincere alla lotteria…..”
“San Gennaro, San Gennaro, fammi vincere alla lotteria…..”

San Gennaro (spazientito): “figlio mio io te facisse pure vincere, ma tu ‘o biglietto almeno t’o vuo’ accatta’?”

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