mercoledì 20 agosto 2014

2014 08 20 – Sistema Italia. Occupazione e tessuto piccole medie imprese



2014 08 20 – Sistema Italia. Occupazione e tessuto piccole medie imprese
L’occupazione viene per ultima, nella cronologia della trilogia Pil, Investimenti, Occupazione.

Perché non può che scaturire come conseguenza di un sistema che funziona.
E sul tema partiamo, salvo errori, con una sorpresa.
Lo dicevo io che non si devono mai guardare solo le percentuali, ma sempre prima i valori assoluti. Bisogna debellare questo “virus percentile”.
Mi riferisco alle 4 tabelle precedenti e relativi grafici, che riportano 10 anni di :
  • Forza lavoro (in migliaia)
  • Occupati (in migliaia)
  • Disoccupati (in migliaia)
  • Disoccupati (in %)
Mi aspettavo di trovare 2 milioni di occupati in meno.
E invece: occupati totali stabili. Dal 2004 al 2014 passano da 22,8 a 22,6 milioni.
Il problema è che cresce la forza lavoro. Da 24,8 a 26,1 milioni. Non mi è chiaro come possa essere, dato che  la popolazione rimane stabile ed in più invecchia. Una spiegazione che mi viene in mente è quella già menzionata riguardo ai migranti. Gli stranieri ci riportano negli ultimi anni da 58 a 60 milioni totali, e sono giovani, quindi annoverabili nella forza lavoro. Ma è un’ipotesi da verificare.
Nel complesso comunque il sistema sembra tenere. Addirittura, anche negli anni post 2008 e 2009. Il numero totale di occupati resiste. Anche se bisogna rilevare come tra i due estremi del 2004 e 2014, l’occupazione totale era cresciuta, fino a quasi 24 milioni del 2008. Quindi quello che è successo è che con la crisi ci siamo “rimangiati” l’incremento che era giunto fino al massimo del 2008.
Ma nel complesso per me ha del miracoloso. Ricordando lo stillicidio di notizie di imprese di ogni dimensione che chiudevano mi aspettavo molto peggio. Volendo guardare il bicchiere mezzo pieno, il che è sempre un buon esercizio, è una buona notizia, anche se bisogna sempre ricordare sia la disoccupazione giovanile che quella meridionale.
Sulla seconda, che è visibile dalle tabelle, si nota chiaramente che in tutte le regioni meridionali il numero di occupati diminuisce.
Quindi si conferma la storia nota dell’Italia a due velocità.
In ogni caso, almeno adesso abbiamo un quadro completo. (NB: attenzione che il 3° e 4° grafico cambiano scala, perciò sembrano molto più ripidi.)

A complemento della fotografia occupazionale nazionale, ho voluto considerare in primo luogo quanto segue, con una fotografia di quello che un tempo tanti ci ammiravano.
Il tessuto delle nostre imprese. Che in larga parte è ancora fatto di piccole medie imprese.
E’ ancora li.
E per me è ancora un nostro punto di forza.
Si guardi la tabella seguente. Le prime 3 colonne sono il totale per classe Ateco di addetti e numero imprese. 16,4 milioni di occupati in 4,4 milioni di imprese. Ovviamente sono contate anche imprese in larga parte unipersonali come si rileva dalle righe a “media 1” (ad esempio le immobiliari o le coltivazioni).
Ma comunque vuol dire che 16,4 milioni su 22,6 totali, sono occupati in questi comparti.
La percezione è davvero di un insieme di tanti microsistemi, a loro volta composti da cellule microeconomiche: le aziende che fanno impresa.
E’ opportuno ricordare che l’art. 2555 del codice civile stabilisce che l’azienda è il complesso dei beni organizzati dall'imprenditore (art. 2082) per l'esercizio dell'impresa. Il codice civile poi, non parla esplicitamente di cosa sia l’impresa, ma rinvia alla definizione di imprenditore.
L’art. 2082 c.c. stabilisce testualmente che è imprenditore chi esercita professionalmente una attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi.
E’ opportuno ricordarlo, perché vuol dire che qualcuno lo ha concepito e addirittura reso legge.
E’ quindi nozione radicata nel nostro sistema sociale, economico e giuridico.
L’Italia, quindi, non è solo una Repubblica fondata sul lavoro. Ma anche sull’impresa.
Potremmo dire che è stata concepita come Repubblica di lavoratori e imprenditori, insieme.
Il che fu quanto meno lungimirante.
E bisogna ricordarselo, perché governare l’Italia deve per forza volere dire farne funzionare il sistema economico nel suo complesso. Tornando alla tabella.
Le ultime 3 colonne in rosso, riportano soltanto i dati delle righe delle prime 3 colonne corrispondenti a una media di addetti inferiore a 10 persone.
La metodologia è approssimata perché questi dati riprendono solo i dati totali per branche con meno di 10 addetti medi, e quindi non tengono conto che in quelle singole medie di partenza ci saranno valori maggiori e valori superiori alla media stessa. Però rende l’idea comunque.
Diciamo che queste ultime 3 colonne approssimano il nostro tessuto di piccole e medie imprese.
Le quali sarebbero 4,242 milioni che impiegano 12,8 milioni di addetti.

Quello che più mi ha impressionato nel guardare questi dati, è un pensiero già esplicitato che è li a portata di mano.
Ho parlato già di sommatoria di sistemi microeconomici.
Di economia frattale.
Mi rendo conto adesso che forse non pensavo solo al futuro, ma descrivevo ciò che è già esistente.
Il nostro tessuto di microimprese ha uno straordinario valore aggiunto, soprattutto in tempi di globalizzazione. Se muore una di queste imprese le altre possono sopravvivere.
E possono subentrarle.
E’ ridondante, come si usa dire per le reti.
E’ un insieme di cellule indipendenti evoluzionisticamente adattivo.
Perché e’ flessibile.
Cosa manca perché ciò riprenda a funzionare ?
Secondo me, innanzitutto le seguenti cose.

L’ordine di grandezza fa la differenza
Proprio come per il “fiscal miracle” già menzionato, io non credo che la chiave sia tagliare un po’ di tasse per rilanciare l’economia.
Ne dal lato consumi ne dal lato investimenti. E questo proprio perché non si potrà incidere in misura significativamente rilevante.
Come già detto, se ad esempio tagliassimo le tasse di 30 miliardi, il che sarebbe tantissimo, a ognuno dei 60 milioni di italiani arriverebbero 500 euro/anno. Su base mensile fa 40 euro circa. Anche ipotizzando che arrivino a tutti e 3 i membri di una famiglia media, sarebbero 120 euro al mese.
Io non credo che li spenderanno tutti, il che potrebbe anche essere buona cosa: magari si rivitalizzerebbe un po’ il risparmio. Ma anche se li consumassero tutti diciamo che alle imprese (che sono 4,4 milioni) arriverebbero 30 miliardi/4,4 milioni = 6.800 euro di fatturato in più. Che assumendo un utile di 10 % medio, farebbero 680 euro a impresa in più.
D’altro canto credo che sia anche evidente che a una impresa che fattura 200.000 euro e ne fa 20.000 di utile, non serva niente pagare 8.000 invece di 10.000 euro di tasse. Certo tutto fa brodo, ma non risolve.
Sempre per lo stesso motivo: l’ordine di grandezza.
Le logiche macroeconomiche classiche, semmai abbiano ancora un senso, ce l’hanno se applicate su larga scala.
In sistemi e misure dimensionalmente grandi.
Ma non in un sistema piccolo a sua volta composto di tante piccole realtà. Come si dice in revisione, in tale caso sono “not tangible”.
Certo se in Italia esistesse una sola unica grande azienda, ricevere 30 miliardi di fatturato in più sarebbe tutt’altra cosa.
Ma non è questa la realtà.
E intanto tutti continuano a “sparare” ricette demagogiche senza sapere cosa stanno dicendo.
Io penso che sia più utile vedere la questione sotto altri profili.
Ecco alcune cose che secondo me servono.

Miglior accesso al credito
Un tempo, in termini di politica economica, si parlava di ruolo del sistema bancario, di forbice di tassi di interesse e così via.
La forbice ad esempio è la differenza tra costo della raccolta che le banche pagano a chi deposita, e ricavi degli impieghi che le banche ottengono prestando il denaro.
Ma erano tempi in cui i tassi interbancari non erano prossimi a zero, e quindi gli importi erano tangibili.
Certo, oggi resta il problema che quando la BCE taglia i tassi a zero, le banche non ribaltano sul mercato. Perchè mentre gli interessi passivi sono prossimi a zero, quelli attivi restano sempre attorno alle stesse grandezze.
L’espansione monetaria dei tassi bassi aiuta per lo più le banche. Si accentua lo squilibrio tra tassi di raccolta a tassi intangibili e tassi di impiego elevati, ma questo accentua uno squilibrio già molto grande, senza alterarne la sua struttura.
Ma anche in questo caso si dovrebbe ricordare che le banche sono comunque generatrici di PIL e conseguentemente di occupazione.
Nel sistema Italia sono il primo settore componente il PIL con 270 su 1.500 miliardi. Demonizzarle tout court non è realistico ne opportuno.

Microequity o Sanocapitale
Altra considerazione però è che il mestiere dei banchieri può oscillare tra due estremi: strozzinaggio o missione sociale.
Per spostarsi verso la seconda, un banchiere deve avere la capacità di riconoscere l’impresa. Riconoscere ciò che ha senso finanziare perché funzionerà. Partecipare al rischio. Senza questo, il banchiere non svolge nessuna nobile funzione.
E’ dunque legittimo che i politici richiamano le banche a svolgere la loro più nobile funzione, senza trattenere capitali che diventano improduttivi.
Ma secondo me esiste anche un’altra opzione. Piccola rispetto al totale. Ma che potrebbe avere un grande impatto “operativo” perché potrebbe essere utile a tantissimi soggetti.
L’idea nasce come derivazione del microcredito. E qualche hanno fa ne avevo parlato e avevo anche provato a realizzarla, chiamandola microequity o “Sanocapitale”. Avevo scoperto, mi pare, che tra l’altro era una cosa che parecchio prima di me era stata riconosciuta dalla finanza islamica.
Si tratta di finanziare importi con le seguenti 4 modalità
  1. Solo in beni strumentali (quindi investimenti, naturalmente)
  2. Senza garanzie reali ma tenendo a garanzia il bene (il che vuol dire concedendolo in uso, come in una specie di comodato)
  3. Senza interessi
  4. Senza rata fissa di rimborso. (In pratica si rimborsa quando ci sono gli utili)
Proprio per queste 4 caratteristiche diventa ragionevole pensare che possa essere fatto dallo Stato e non da privati, anche se si potrebbero stanziare i fondi a livello Statale e poi operativamente erogare a livello bancario dove ci sono:
  1. sia le competenze per valutare il finanziamento (in fondo è solo questione di adottare un profilo di rischio specifico)
  2. sia quelle per gestirne proceduralmente la vita effettiva (ammortamenti e rimborsi)
Ecco, credo che al nostro piccolo imprenditore da 100.000/200.000 euro di ricavi, serva più avere un prestito da 25.000 euro senza interessi e rimborsabile quando possibile per comperare nuovi macchinari o attrezzature, piuttosto che uno “sconto tasse” di qualche mila euro con cui non ci fa niente.
Questo sembrerà utopistico.
Ma se lo si considera a livello sistemico ne rileviamo la notevole dimensione pratica, nonostante la relativa marginalità dimensionale.
Se stanziassi 50 miliardi, da allocare su finanziamenti di 25.000 euro ciascuno, potrei finanziare 2.000.000 di piccole imprese a rotazione.
Il 50 % delle imprese italiane, che come risulta dalla tabella sono 4,4 milioni.
Il tutto non sarebbe nemmeno a fondo perduto, ma mano a mano che i prestiti vengono rimborsati si finanzia qualcun altro.
Stessa logica del microcredito, quindi. Con importi relativamente modesti si aiutano davvero milioni di persone.
Ecco che allora invece che il taglio delle tasse, potrei usare tali importi di ipotetico taglio per destinare fondi (25 miliardi anno per 2 anni, ad esempio ) ad una iniziativa strutturale utile nel lungo periodo.
Se poi si vuole considerare la valenza sociale di microequity e microcredito, nelle rispettive misure da me ipotizzate, si aiuterebbero rispettivamente 2 milioni e 1 milione di persone.
Contandone l’appartenenza a una famiglia di 3 soggetti medi, si arriverebbe e fare qualcosa di tangibile per 9 milioni di persone.
Questo si che è un ordine di grandezza rilevante.

Integrazione micro sistemica a valle e a monte. Filiera e consorzi.
Sempre guardando i dettagli della tabella, e in particolare quante branche di attività siano caratterizzate da numero di addetti medi molto piccolo, mi sono chiesto cosa servisse davvero a questi soggetti.
Molto spesso sono impegnati a produrre e non hanno tempo di fare altro.
E se riusciamo a farli crescere, allora si che potranno assumere qualcuno.
Mi è venuto in mente un esempio di Asti, città dove ho vissuto per un po’di tempo. Una antica cioccolateria artigianale gestita da padre e figlio, mi pare. Spettacolare. Dei prodotti che belgi e svizzeri se li sognano.
Mi trovai li per caso e iniziammo a parlare finchè gli raccontai della Microeconomia Adattiva Complessa e del supporto commerciale che avremmo potuto dargli.
Quello mi disse qualcosa del tipo “Magari! Noi non abbiamo mica il tempo di andare in giro a vendere”.
E così ce ne sono a migliaia.
Da cui torniamo tra l’altra alla solita idea dei sell centers.
Ma sulla stessa scorta, si potrebbe pensare anche a tante atre cose.
A dei portali web comuni per la vendita del Made in Italy (io, ad esempio avevo provato a lanciare www.prezzosorgente.it – oggi chiuso)
A dei buy center, dedicati alla singola branca di attività. Magari a livello regionale o provinciale.
A dei gruppi di acquisto lato impresa.
A mercato interno prenotato da gruppi di acquisto di clienti.
Se ci si pensa bene non è nulla di nuovo rispetto ad una logica consortile.
Forse da realizzare con alcune specificità, come ad esempio impiegando i disoccupati.
Il nocciolo della questione è cercare di inventarsi tanti step di filiera nuovi e/o aggregativi.
Usando la logica dei consorzi, ma con il controllo e la gestione statale.
Perché i piccoli spesso non hanno nemmeno le energie e il tempo per pensare a consorziarsi.


Allegato : rilevazione sulle forze di lavoro. Istat
Dall'indagine sulle forze di lavoro derivano le stime ufficiali degli occupati e delle persone in cerca di lavoro, nonché informazioni sui principali aggregati dell'offerta di lavoro ' professione, ramo di attività economica, ore lavorate, tipologia e durata dei contratti, formazione.
Dalla sua introduzione all'inizio degli anni '50, l'indagine svolge un ruolo di primo piano nella documentazione statistica e nell'analisi della situazione occupazionale in Italia e si rivela uno strumento conoscitivo indispensabile per decisori pubblici, media, cittadini.
Le informazioni vengono raccolte dall'Istat intervistando ogni trimestre un campione di quasi 77 mila famiglie, pari a 175 mila individui residenti in Italia, anche se temporaneamente all'estero.
Sono escluse le famiglie che vivono abitualmente all'estero e i membri permanenti delle convivenze (istituti religiosi, caserme ecc.).
Negli anni l'indagine è stata più volte rinnovata per tenere conto, da un lato, delle continue trasformazioni del mercato del lavoro, dall'altro, delle crescenti esigenze conoscitive degli utenti sulla realtà sociale ed economica del nostro paese.
L'ultima modifica è stata avviata all'inizio del 2004 in linea con le disposizioni dell'Unione Europea.
L'attuale rilevazione campionaria è continua in quanto le informazioni sono raccolte in tutte le settimane dell'anno e non più in una singola settimana per trimestre.
I risultati vengono diffusi con cadenza trimestrale, fatta eccezione per il dettaglio provinciale che ha cadenza annuale.
La rilevazione si caratterizza per la definizione di nuovi criteri di individuazione degli occupati e delle persone in cerca di lavoro, nonché per la profonda riorganizzazione del processo di raccolta e produzione dei dati.
Per rendere confrontabili le nuove stime rispetto ai dati riferiti agli anni passati l'Istat ha provveduto a ricostruire le serie storiche a partire dal quarto trimestre del 1992.

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