domenica 1 novembre 2020

2020 11 02 – L’irrefrenabile ilarità del Kalimmudda - New deal

 2020 11 02 – L’irrefrenabile ilarità del Kalimmudda 

 Quando nacque, così tutto nero, parve subito chiaro che fosse un segno di sventura futura.

Un segno mandato da chissà quali dei, per marchiare indelebilmente il pollaio morente.

Per esorcizzare la iattura, la mamma lo chiamò Kalimero, buon giorno di intenzioni, a sperarne manifestazioni.

Kalimero era figlio di Kalispera, e con il suo buonasera coprivano la giornata tutta intera.

Quando andavano in giro, una bianca. l’altro nero, sembravano opposti come bene e male ed erano di frequente oggetto di ostracismo, spesso degenerante in bullismo, perché forieri di pensieri funesti frequenti soprattutto nei disonesti.

Insomma, la sventura del pollaio era proiettata sul povero pulcino e non sulla scala sociale del pollaio stesso, che notoriamente è corta e piena di merda, ma che lascia sovente spazio alle cime di casta, poco propense a condivider il pasto.

Così Kalimero veniva deriso, oltraggiato, schernito e abbecchato, non avendo i polli le dita, per la sua neritudine.

Dai e dai l’effetto ripetizione e quello esposizione ebbero la meglio, fino a che anche Kalispera fu convinta che il suo mero fosse in effetti funesto.

Un po’ per scelta e un po’ per viltà, arrivò il giorno che il gran consiglio di casta decise che Kalimero andava allontanato, convinti che le sventure sarebbero sparite con il semplice suo sparire dalla vista.

Evidente degenerazione avicola definita “struzzalità”, fatta di rimozione e negazione delle evidenti proprie responsabilità.

Kalispera cedette, e la vita di Kalimero si spezzò.

Fu bandito dal pollaio, e diventò un fuorigregge, manco fosse stato una pecora.

Iniziò a girovagare per il mondo vivendo di espedienti.

Essendo maschio non poteva nemmeno ovoiare, ragion per cui doveva procurarsi il cibo con vari stratagemmi, anche perché a cannibalare per mangiarsi le sue stesse uova non ci si vedeva proprio, se non altro per questioni di erbivolezza.

Imparò moti trucchi, visitò molti posti, incontrò molti altri, sempre facendo attenzione agli umani torcicolli.

Insomma si fece un bagaglio di vita che piano piano lo allontanò dal compiangevole “eh, ma è una ingiustizia però. Solo perché sono piccolo e nero.”

Col tempo si rese conto che si abituava a qualsiasi cosa e soprattutto che tutto era relativo e che nun s’adda da’ retta che qualcuno, lassù, ce sta che nce penza.

Si scoprì fedele, intendendosi di fede, e avendo constatato la presenza divina, sia nell’ordine naturale delle cose che in quello suo proprio, da pigarolo, divenne ridarolo.

Ogni volta che succedeva qualcosa, a lui o ad altri, mentre serpeggiava la disperazione lui scoppiava in certe risate di gusto che nascendo pigolate risuonavan piuttosto. 

Da piccolo e nerofunesto, iniziarono a prenderlo per matto.

E lui ci rideva, sempre come se gli avessero affibbiato un titolo nobiliare.

A furia di ridere di ogni cosa, iniziò a diventare famoso, che nessuno riusciva a capire i suoi motivi e quindi la curiosità, invece che uccidere gatti, cresceva un po’ ovunque.

Certo matto doveva essere matto, ma non si era più nell’era dell’eugenetica avicola, per cui questa strana forma di schizofrenia aviaria suscitava anche un certo fascino.

Da principio nel mondo artistico, dove se ne percepì la potenza creativa, poi lentamente anche altrove dove creativo voleva dire un volitivo valore.

E Kalimero rideva.

E in effetti ci provava gusto.

Tutto gli passava sopra, ed ogni fremito di neurosfera gli si trasmetteva tra le membra fino ad attraversarlo fin su, nella mente.

Nel frattempo assemblava idee, pensieri e concetti, forse proprio perché libero da preconcetti.

O forse perché non aveva niente di meglio da fare.

E ridendo di tutto, non riusciva proprio a capire l’insensatezza di tanti pollai, pieni di caste sempre pigolanti e niente affascinanti.

Accumulò canoscenza, spinto da un bisogno come d’essenza.

E poi decise inconsapevole di iniziare a diffonderla.

Inconsapevole, si, perché era come spinto da una forza “d’above” a cui non poteva opporsi.

Ma sempre col riso sulle labbra di becco, seppur non cornuto.

Iniziò a spaziare nelle teorizzazioni, dalle cose pratiche fino alle stelle.

Sentiva che per ogni cosa tutto era già spiegato e a disposizione da cogliere, proprio come un uovo pieno di informazione.

E naturalmente ad ogni percepita corrispondeva una risata.

Andò talmente avanti che non riusciva più smettere di ridere, in continuazione.

Finché un giorno si illuminò e sentì la potenza di tutto quel riso attraversargli non più solo la mente, ma girovagare per tutto l’universo.

La sua era sempre stata una storia singolare, da single, ma d’improvviso si trovò connesso con tutto.

E da una forza che non era quella della luce, ma altra cosa.

Aveva scoperto la forza dell’amore, quello universalmente pervasivo, e ne aveva scoperta la natura di lieve gravità.

Insomma, lo sentiva.

Anche se era un pollo, con la spinta dell’amore lui poteva volare.

E come lui tutti quanti.

E volando volando ogni pollaio avrebbe percepito quella forza e si sarebbe elevato oltre se stesso.

Cercava un termine per tutto questo.

Gli venne avioscendenza che non era male : una sorta di trascendenza avicola. E poi era crasabile in un volatile avioscenza, anche con l’eventuale i.

E ci aggiunse due meccanismi di fondo, uno che spingeva, la radiazione di energia, e uno che raccoglieva, la gravità.

Per rendere le cose più semplici le sintetizzò in intelletto e amore.

E questa fu per lui la synfisica.

Opera avicola in onnipresenza divina, sotto forma di fisica.

Si rese conto che c’erano due potenti strumenti a disposizione., esistenti fin dall’alba dei tempi.

I rotori semantici per la neurosfera.

Intelletto.

I centri di gravità per la mente.

Amore.

Scrisse tutto quanto e si accinse ad iniziarne la divulgazione.

Si ricordò addirittura di farsi una risata, già che aveva scoperto essere atto d’amore molto più energetico del pianto di intellettuale dolore.

E sempre spinto da queste due forze universali, si avviò per il mondo, con la sua missione da compiere.

Voleva diffondere il verbo, che poi era un cocco, ma per vedere il mondo in fondo ridere.

A crepapelle.

Di pollo.

Così un giorno il messìa si palesò all’ingresso del pollaio che lo aveva ripudiato.

Ed iniziò la sua predicazione.

Suscitò un certo interesse, soprattutto perché cercava di fare ridere tutti, e spesso tra trovate ed invenzioni ci riusciva.

I polli iniziarono a seguirlo.

In batteria.

Iniziarono a sentire quella storia della potenza dell’amore.

Ma soprattutto partendo dalle caste di lì più basse.

Kalimero, ormai considerato una specie di messìa, portava unità in felicità, in quel mondo così straziato di poco amore.

Fu un bel casino, perché fu come se Dio si fosse palesato in tutte le sue forme di divina rappresentazione. Tutte insieme.

Monoteiste, pluriteiste, ateiste, solo teiste, a volte etichiste, e chiste e chille..

Alla fine qualche matto la aveva percepita la potenza della synfisica, e aveva capito che non c’era bisogno di macellarsi.

Bastava non contrapporsi.

Ma Kalimero subito si rese conto dell’arduo problema.

Lui si metteva di impegno.

Proferiva in continuazione il verbo del Syn, con anche alcune difficoltà che non tutti avevano la y.

Forse proprio per questo tutta questa rivelazione per alcuno era una maledizione, che pensavano diventasse apocalisse o per lo meno apocalesse.

Ma lui predicava e divulgava e procedeva nella sua missione di riconnessione di opposizione, che ancora nutriva la speranza del  suo verbo gran possanza.

Lui che aveva visto tutto doveva rendere tutti partecipi.

Alcuni glielo avevano detto che il verbo non abbastava, ma egli non ci credeva.

E così ripresero a dargli del matto, con la stessa m di mero ma dal senso molto meno sincero.

Ma lui rideva, e rideva e rideva

Finche’ arrivò la pestilenza.

E tutto il pollaio iniziò a cercare il pollo espiatorio, perche’ la natura del pollo in batteria e’ poco propensa alla condivisione, soprattutto quando in demìa.

Come da principio, la sventura del pollaio, che già da prima mica era messo tanto bene, fu nuovamente proiettata sul povero Kalimero, che pure tanto si  era prodigato per la diffusione di una certa conoscenza che confermasse la sua natura non foriera di iattura.

Ma malauguratamente aveva sempre predicato un impresagibile “frequentate positivi”, intendendo soggetti dallo spirito illuminato.

Mentre con la pestilenza la locuzione era assurta a quella che venne malintesa in sierologica maledizione.

Così KaliMero da messìa che fu, con tanto di M maiuscola, venne deriso, oltraggiato, schernito e abbecchato, e infine nuovamente bandito dal pollaio.

Era il colpevole della pestilenza, non foss’altro che per avere sfidato le alte vette della canoscenza.

E per tale ragione, da messìa si ritrovò declassato, sempre maiuscolo, ma a Matto.

L’ultima cosa che disse prima di andarsene fu : “abbiate pazienza, un po’ di astinenza e passerà la pestilenza”.

E rise, e rise, e rise, già certo che nessuno lo avrebbe ascoltato.

Fu una profezia mal giudicata, che con tutto quel riso tutti ritennero da matti.

Pazienza e astinenza, proprio nessuno ce la fece, e così il semplice monito venne subito scordato.

KaliMero se ne andò dal pollaio e si fermò sotto una grande quercia di secolare memoria anulare.

Si ritirò in medighiera, la sua forma di meditazione e preghiera fatta col pensiero fluente e non ristagnante.

A inseguire canali dentro sè non banali.

E solo sulla collina con la sua quercia, rideva e toccava e rideva. Sembrava lui il padrone.

Insomma, proprio come un uomo, proprio come un matto.

Finche’ dopo tanta fatica si acquattò e si addormentò, ma solo dopo un’immancabile risata.

D’un tratto si svegliò per le urla provenienti dal pollaio.

Dapprincipio pensò che fosse la iattura, invece dopo un po’ percepì che si trattava di urla di gioia, in mezzo a tante risate.

Ancora non lo sapeva, ma aveva dormito dieci anni.

E tanti ce ne mise a passare la pestilenza, senza la pazienza e l’astinenza.

Qualcuno si ricordò della sua profezia e ritenne, che KaliMero fosse rimasto in preghiera meditativa per tutto quel decennio. Che altrimenti non si capiva bene cosa avesse fatto fermo immobile per tutto quel tempo.

E tutti si volettero ricredere, attribuendogli incredibili capacità divinatorie, ed infine un evidente stato di illuminazione tale da avergli donato la libertà dal desiderio perfino di muoversi da sotto l’albero per così tanto tempo.

Diventò per tutti  il Kalimmudda.

Kali perche’ kalòs.

Emme perche’ un po’ matto un po’ messia, eppur nato mero.

E udda ….perche’ il pollaio era in Sarddegna, e dentro non c’era manco una b.

Tutti lo seguivano, credendolo di tutto quel nome un po’.

E in effetti parlava come un oracolo.

E spesso non si capiva il senso.

Tutti pregni di credenza nel buonsenso si trovavano il nonsenso e scordavano il consenso.

Un giorno uno gli chiese : “ma adesso che sei il Kalimmudda cosa fai ?”

Sei un pensatore?

No.

Sei uno scrittore?

No.

Sei un insegnante?

No.

Sei un dotto?

No.

Sei un saggio?

No.

E allora ?

Kalimmudda lo guarda e fa : “io sono misura”.

Eh ? E che vuol dire ?

“Io computo la revoluzione perenne”.

Ah, beh!

“Io cerco l’altra via”

Oh. Adesso si che è tutto chiaro.

….ma scusa…, quale altra via?

Kalimmudda pensò : “ancora lungo e impervio si palesa il cammino”.

Ma in realtà non parlava del suo.

Gli scappò una risata.

Alcuni capirono che quella sorta di sardonica parabola era piuttosto un’iperbole, e non poterono non riconoscerne una certa grandezza.

E poi quel linguaggio tra l’aulico e il criptico, spesso ritmico ma a volte rimico, ove non comico, conferiva al pulcino una certa autorevolezza da bambino, il cui solo sguardo di meraviglia era capace di rendere giustizia alle mirabilie del mondo.

Continuarono così a vederlo illuminato.

Ma lui rideva sempre.

Ci vuole del talento per invecchiare senza diventare adulti, pensava.

Ma tutta quell’ilarità suscitava quantomeno perplessità alle orecchie di ogni santità che assisteva al qua qua qua.

Nemmanco la pestilenza aveva portato la scienza della canoscenza.

Tutta richiusa in proprietà privata, canonizzata dalla bisogna di sopravvivenza.

Kalimero pensava : nun gliela famo, da sardonico romanesco.

Eppure ci sono le scritture.

E pure le mie, prodromiche preparatorie e pure propedeutiche, quando non pedagogiche.

Rotori semantici.

Neurosfera.

Centri di gravità per la mente .

Intelletto.

Amore.

Possibile che ancora non capiscano?

La via l’aveva indicata.

Io non servo più, l’io non serve più.

So died the me, than came the we.

Eppure, nonostante la divina lezione, ancora tutti erano intrisi di sé.

Ahò, sempre in sardonico romanesco, ma che siete de coccio?

Iniziarono i tempi delle agorìe con gran timore di alcune etnie e persino categorie..

Tutti a parlare per vedere di conciliare, ciò che era già synfatto.

Ma cervelli troppo antichi non erano ancora abbastanza prescienti.

E del succo del syntutto, cogliean soltanto qualcuno suo frutto.

Finchè un giorno Kalimmudda si stufò e si alzo in volo sena sapere come, perche’ non aveva di certo delle ali da aquila, e senza sapere che era per merito della forza dell’amore del suo centro di gravità per la mente, si proiettò nel suo rotore semantico.

E a tutti gli astanti che lo imploravano di rivelare il grande segreto disse solo: “io non servo più, l’io non serve più”.

E scoppiò a ridere.

Fu allora che un gurone, un po’ guru un po’ santone” pieno si saccenza di conoscenza gli chiese :

ma perche’ ridi sempre?

Cosa e’ che tu sai che noi no?

Cosa e’ la vita secondo te?

Sei davvero matto?

Kalimmudda panpregò, nel dubbio plurale.

Signori, datemi il senso del ridicolo. Concedetemi la grazia di comprendere uno scherzo affinché conosca nella vita un poco di gioia e possa farne parte anche ad altri.

E pensò a tutte le volte che aveva riso scherzando coi suoi pensieri, certamente con un qualche bruscolo di follìa.

E rispose.

La vita e’ uno scherzo di fiume.

E nel mentre pensò panteistico che in effetti a volte lo e‘ di pessimo gusto. Ma altre proprio no, a crepapelle.

Il gurone lo guardò interdetto e gli disse: “ma come tutto qua il tuo segreto della canoscenza. La vita e’ uno scherzo? E di fiume?”

Kalimmudda lo guardò, ma stavolta sghignazzando, e disse: “perche’, non e’ uno scherzo?”

 

 

La synfisica

Civiltà di intelletto diffuso in amore perfuso

Un rotore semantico per la neurosfera

Un centro di gravità per la mente

E una grande risata

 

  


 


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