2021 05 17 - Il refolo beato della revoluzione
La fine dell’era del “sacrificio dell’asincrono”, profetizzata dalle visioni di tanti sogni rivelatisi in ordine sparso nella colonia di ermellotte sin dalla notte dei tempi e poi tramandata di generazione in generazione, era un evento da tanto atteso da tutti, che aspettavano di non dovere più soffrire per quell’ermellotta asincrona pari tra i pari, seppur forse un po’ meno alla pari, che l’aquila regolarmente dilaniava.
Quando arrivò la fine del primo inverno senza che nascesse
nemmeno una ermellotta asincrona, l’animo nobile della Gran Maestra non pote’ non pensare alla povera aquila Renata,
solita riconoscere le sue prede proprio per l’asincronia.
Chiese all’aquila : “E adesso” ?
L’aquila rispose : “Non c’e’ nessun adesso”.
“La metamorfosi è terminata. L’ermellotta è un essere
perfetta”.
Intendendo, con ciò, che da quel momento apparteneva al regno
del per sempre.
Aggiunse infatti : ““Io non ho più fame. Mi nutrirò di aria,
di acqua e di luce, come fanno le piante nella loro perfezione di alchimisti
naturali”.
“Da ora in avanti io non sono più aquila più di quanto tu non
sia più marmotta o ermellino. Questa era la mia ultima reincarnazione. Il mio
compito era fare in modo che l’ermellotta regnasse indisturbata e pacifica su
questa porzione di creato”.
“Questo è quel regno dei peli che vi cantate, o meglio
fischiate, fin dalla notte dei tempi.”
E mentre mormorava queste ultime parole si alzò per il suo
ultimo, maestoso, volo a cavallo di un raggio di luce imbrigliato nel suo
occhio a qui li no, generando infinti versi persi al vento di tutti i pensieri.
“L’Io non serve più. Io non servo più” furono le sue ultime
parole, mentre la sua figura rimpiccioliva sempre di più fino a trasformarsi in
un ultimo impercettibile battito d’ali di una farfalla che si sciolse nel
tutto.
Col tempo il tempo passava, e ogni anno la Gran Maestra si
vedeva ringiovanire un po’. All’inizio fu qualche pelo bianco che lasciò il
posto a quelli marroni, al contrario del normale.
Poi iniziò a sentirsi più tonica.
Addirittura certe volte si esibiva in certe fischiate in
modulazioni una volta impensabili, tanto che i piccoli della colonia la
chiamavano Maestra Canterina, poiche’ fischiava quasi come se fosse una
cantante umana.
La Gran Maestra osservava tutto dall’alto della sua epifanica visione
della vita, piena di quella saggezza che solo chi ha visto passare tante lune
può respirare.
E non poteva non notare che ad ogni fine di inverno, quando
con il disgelo venivano al mondo tutte quelle giovani ermellotte, ogni anno le
stesse si rivelavano un po’ diverse da quelle precedenti.
Chi correva più veloce, chi fischiava meglio, chi sentiva
prima l’arrivo di un rapace, chi addirittura portava una pelliccia più bella.
Ogni volta la gran Maestra si chiedeva come fosse possibile.
Anche l’aquila Renata le aveva detto che quello era quel regno
dei peli atteso fin dalla notte dei tempi, porzione di creato sul quale
l’ermellotta potesse regnare indisturbata e pacifica.
Eppure, per qualche ragione sconosciuta alla Gran Maestra,
quel regnare indisturbati aveva determinato una accelerazione di una costante
progressione di specie, che non possiamo dire le facesse specie, ma che
sembrava lasciare tracce di superficie, di fenotipo, come di scie senza
sfiducie.
Insomma, non è che fosse una brutta cosa tutto quel
rincorrersi tra speciali alla ricerca di sempre maggior specialità, se non
specializzazione.
La Gran maestra scavò nel serbatoio dei suoi ricordi, per
cercare di capire se tutto questo fosse una novità oppure no.
E mentre scavava dentro di se capiva sempre più distintamente
che quell’istinto al migliorare era sempre esistito, ma tutti presi dalla
Cultura del Terrore che un’aquila piombasse sulla colonia, nessuno ci aveva mai
fatto troppo caso.
L’attenzione, l’apprendimento e l’insegnamento erano tutti
concentrati sulla paura; delle aquile, del prossimo, delle altre colonie,
insomma un po’ di tutto, dimenticando in larga parte la “cultura del libera
l’anima”.
La Gran Maestra all’inizio si disse: “brutto affare quello
della Cultura del Terrore”.
Si perché’ le sembrava proprio un dogma veicolato nei sentieri
delle paure ancestrali, archteipiche, degli individui.
Ma poi si rese conto che in qualche modo la Cultura del
Terrore era anche servita.
E come tutti i dogmi, forse il punto fondamentale era che
avevano un ciclo di vita.
In fondo siamo dogmatici quando diciamo a un bambino di non
accettare caramelle da uno sconosciuto.
Quando il bambino cresce, però, sarà in grado di riconoscere
lo schema e decidere da solo.
Ecco che il dogma funziona da genitore, fino alla maggiore età
del bambino.
In effetti, la colonia era cresciuta, seppure sempre e solo
sulla difensiva del se’, spesso anche aggressiva, anaffettiva, abrogativa,
ammonitiva e apprensiva, associativa eppure avulsiva.
Adesso era diverso.
La crescita era una crescita delle coscienze, anche intese
come scienze della comunità, ragione per cui tutti cercavano di fare sempre
meglio quello che facevano, qualsiasi cosa fosse.
E ci riuscivano.
Era stata abolita ogni ruota da criceto, anche metaforica, ed
erano stai abbattuti tutti i muri che separavano qualsiasi abitante della
colonia.
Ma la cosa strabiliante era che quello che avevano migliorato,
veniva poi trasmesso ai cuccioli, che nascevano già migliorati, potenziati,
senza dovere ripartire daccapo.
Anzi ripartendo, ad ogni ciclo di nascite, da un po’ più in
alto.
E tutto ciò, non solo nell’ambito della singola famiglia.
Se un’ermellotta diventava capace di fischiare una nuova
tonalità, alla generazione successiva lo sapevano fare tutte le nuove nate.
Evidentemente, esisteva una memoria interconnessa sedimentata
in qualche parte biologica della specie.
La Gran Maestra, inoltre, sentiva distintamente che ci doveva
essere un fattore esterno, ma non ne conosceva il nome.
Ripensò spesso all’aquila.
“L’io non serve più. Io non servo più”, aveva detto.
E poi “questo è quel regno dei peli”.
E così via.
Finche’ la Gran Maestra vide la luce che era rimasta
imbrigliata nell’occhio dell’aquila.
Si ricordò che l’aquila aveva detto: “Non c’e più nessun
adesso. La metamorfosi è finita. L’ermellotta è un essere perfetta.”
Si chiese cosa volesse dire esattamente “perfetto”, che le
sembrò parola dal multi senso in più di 10, e non avendo reminiscenze
abbastanza fresche, controllò sul suo vocabolario enciclopedico preferito.
Volando tra le varie definizioni, si perse subito quella
brutta connotazione di superiorità e
supremazia della comune accezione, e l’ermellotta capì che doveva
sprofondarsi negli etimi.
Perfètto: aggettivo e sostantivo dal
latino perfectus,
participio passato di perficĕre
«compiere», composto di per
e facĕre «fare». Con
uso più propriamente participiale, nella lingua antica e letteraria, condotto a
termine, portato a compimento, concluso: sorge il fabbro, e la sonante officina riapre, e all’opre torna L’altro dì non perfette (Parini). Come
vero e proprio aggettivo, compiuto in tutte le sue parti, completo di tutti gli
elementi caratteristici e necessarî, giunto al punto estremo del suo sviluppo: ha avuto un’educazione p.; ha una conoscenza p. dell’argomento; una macchina p.; delitto p.
La Gran Maestra capì a prima vista.
L’ermellotta era diventata un essere perfetta per svolgere il
compito di continuare a perfezionarsi assecondando la ricezione e la
elaborazione, o digestione, di stimoli
interni o esterni di livello superiore alla paura e al terrore.
Senza la paura delle aquile, aveva ora il compito-dovere, di
assecondare la sua natura.
Perfetta, compiuta, adattata alla sua funzione, al continuo
miglioramento della sua esistenza di montagna.
‘'N
paraviso s’adda fatica, le venne in mente.
Si ricordò di un uomo che aveva assistito ad un sacrificio di
un asincrono che aveva anche assimilato ad un’idea del cazzo.
L’uomo si disse che se si vuole evitare la proliferazione
delle idee del cazzo, e degli asincroni in genere, è meglio stroncarle sul
nascere con due principali opzioni metodologiche di base: l’asporto o l’incapsulo.
L’ermellotta ebbe una visione, nella quale capì che c’era una
terza via.
Ripensò alla colonia, e a tutto quel progredire che la
percorreva di pelo in pelo e di anno in anno.
Ripensò alle piccole ermellotte interconnesse che nascevano in
nuove generazioni già imbevute di quanto di buono una singola tra loro avesse
ottenuto nella vita precedente.
Tutto cresceva, tutto progrediva, tutto marciava anche
quando non lo si credeva.
Crescevano più grandi e forti le ermellotte, aumentava l’età, tutte imparavano a cantare.
Non era solo formazione.
Era la conseguenza del navigare nel grande flusso della vita
del regno dei peli; e dell’armonia di quel flusso la colonia si nutriva.
L’ermellotta si disse che l’uomo, come sempre, vedeva solo una
parte del disegno e dentro a quella parte pensava di essere il centro
dell’universo.
L’uomo era tecnico per natura, almeno fino ad allora, e dei
tecnici si deve sempre diffidare.
Era forse tutta colpa di quell’Aristotile li, con la sua manìa
di contrapporre, ma stava di fatto che l’uomo si era concepito come io-se’,
distinto ed estraniato dal tutto-noi del quale si credeva addirittura padrone.
Invece all’ermellotta adesso era chiaro.
L’armonia di ogni ermellotta era l’armonia della montagna
intera, e l’armonia era il giusto mezzo di propagazione di voci foriere,
portatrici, di verbi
fecondi di ogni speme.
Concepire senza distorsione comportava dunque un assemblaggio
di geni più sereno, disteso.
E così nel regno del per sempre l’evoluzioneè un
continuo.
E’ un processo di trasformazione, graduale e persistente, per
cui una data realtà passa da uno stato all’altro più perfezionato attraverso
cambiamenti successivi.
In tal senso l’evoluzione si contrappone sia a permanenza sia a rivoluzione.
E in tal senso poco importa da dove venga la fonte del
cambiamento.
Vale a dire che poco importa che sia precodificata nei geni e
si attivi, ad un certo punto, in relazione a fattori interni o esterni.
Ciò ce conta è che esiste un disegno comune, uno schema,
secondo il quale tutto procede.
Lo senti nelle armonie di sopra il cielo.
Lo trovi nei raggi del sole.
E nel canto fischiato dai venti.
E quindi non è indispensabile l’asporto forzoso del pazzo,
inteso soggetto non dotato di salute mentale nei canoni della normale.
Ci penserà il ricambio generazionale.
La razione dei geni non è un razionale.
L’ermellotta si sentì di nuovo Gran Maestra.
E si disse che tanta scienza doveva avere un nome.
Dopo giorni di riflessioni e vari tentativi, finalmente
partorì il verbo che sarebbe stato cantato, in
tante storie, alle giovani ermellotte future.
Soddisfatta per la sua trovata letteraria si mise a fischiare
come un usignola.
Il verbo che aveva tanto cercato fu conosciuto da quel giorno
come “refolo beato”.
E siccome erano in montagna, pur piena di cattedrali naturali,
e non in chiesa,che non avevano nemmeno mai concepito, figurarsi se
frequentato, praticamente nessuno pensò allo “spirito santo”.
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