2021
05 17 - La montagna dell’io non serve più.
So died the me. Then came the we.
L’ermellino è un piccolo predatore carnivoro di montagna, normalmente associato a simboli nobiliari, assai probabilmente a sua insaputa. https://it.wikipedia.org/wiki/Mustela_erminea
Dicesi
nasconderello, una particolare attitudine comportamentale riscontrata in questi
animali montani, che piccolini e bellini chiamiamo ermellini, i quali pare che
sogliano rimbalzare tra i molteplici ingressi dei tunnel della loro tana,
facendo capolino per brevi momenti un po’ qua un po’ la.
Gli
ermellini sono animaletti nervosetti e frementi e vibranti, e chissà altri anti
quanti, che si muovono a rapidi scatti della loro testolina periscopica
guardinga che oscilla freneticamente da un lato all’altro, determinando in chi
osserva la percezione di un effettivo tunnel scandito proprio dalle uscite dai
lati del tunnel stesso e altresì detto effetto tunnel.
Ma
l’ermellino non lo fa per divertimento.
Dal primo
lato scandisce la presenza di nemici di fanteria, a livello del terreno. Dal
lato opposto sembra trasferire l’informazione a suoi compari di specie, anche
se in realtà è solo. Dall’alto scandisce la presenza di nemici di aviazione. E
in basso scandisce la presenza dei suoi pasti.
Gli
ermellini sono anche animaletti tanalinghi, molto legati al loro covo di
nicchia, con il quale stabiliscono un legame affettivo duraturo tanto quanto.
Hanno quindi una natura circoscritta ad un ambiente dai contorni ben definiti
dal quale si spostano poco, tranne che per cacciare, e nel quale sono alla
costante ricerca di contatti, visivi o altrimenti sensoriali.
Essendo
piccoli e vulnerabili, seppur anche vulneratori, la natura li ha infatti dotati
di apparti di ricezione particolarmente sviluppati. Sono animali molto
recettori che percepiscono suoni, vibrazioni, movimenti, immagini e forme, in
ogni momento senza soluzione di continuità a prescindere dalla loro volontà.
Percepiscono
un refolo d’aria prima ancora che arrivi; sentono rumori prima ancora che
suonino, anche a frequenze per noi impensabili; hanno un campo visivo esteso a
grandangolare dalle frenetiche rotazioni della testolina, che permette di vedere tutto attorno al punto
di osservazione.
E
riconoscono forme, intendendo con ciò soprattutto che riconoscono schemi con
cui avvengono dei fatti o delle occorrenze. Come d’altronde facciamo noi, le
aquile, le marmotte e tutti i personaggi in cerca di un autorevole fonte di
formazione di questa nostra favola.
Il loro
principale nemico dall’alto sono i grandi rapaci, l’aquila in primo luogo.
L’ermellino la riconosce quando è lontanissima in alto nel cielo non tanto perché’
la vede nei suoi contorni, ma piuttosto perché’ il suo cervellino di ermellino
computa una sequenza logica che ricalca uno schema già noto: cielo azzuro +
puntino nero non azzurro + ermellino bianco inerme sul prato = questa la
conosco: è un’aquila per la quale io sono una polpetta.
Potete
immaginare anche uno schema più veloce e più semplice. L’aquila scende in
picchiata e punta l’ermellino il quale, mentre corre all’impazzata verso la sua
tana con la capocchia rivolta all’indietro, scandisce la direzione dell’aquila
e disegna la traiettoria dove essa planerà. Inizia a contare, cinque, quattro,
tre due, uno…a destra! E l’aquila lo manca. Il ciclo ricomincia in un reciproco
meccanismo di calcolo e ricalcolo dello schema che si sta reiterando.
Quindi l’ermellino
sopravvive se sa riconoscere una serie di informazioni che compongono uno
schema, una forma. E l’aquila mangia se sa fare altrettanto. Di certo emerge
una altro schema: quando un puntino nero nel cielo incontra un puntino bianco
sul prato, tra i due, l’ermellino è quello che se la fa addosso.
Forse a
causa della loro relativa tanicità, o forse per la natura di predatore
carnivoro, l’ermellino non è un animale particolarmente sociale ragione per la
quale non vive in grandi agglomerati o colonie popolate di ermellinei compari.
Sono
animali dalla vita solinga, nel corso della quale si stagliano sovente sulla
loro cengia
che li sostenga come una lusinga tenendoli circoscritti senza copia, non in
coppia, ragion per cui è improbabile vederli mentre ballano la milongadelle
altezze dai verdi prati.
Un giorno
l’ermellino che c’e’ in noi, mentre cammina ramingo ma guardingo pensando un
m’astengo, io non appartengo al tipo casalingo ma sogno un tango o almeno un
fandango con esemplare fiammingo o vichingo o nibelungo anche se così io non
dico che rimpiango ma rimango dove mi intrattengo con poco marengo, incontra
una marmotta, la quale anch’essa albergava in noi stessi.
La
marmotta https://it.wikipedia.org/wiki/Marmotaè
un erbivoro paffuto, non un carnivoro, al contrario dell’ermellino molto
sociale, che vive in colonie di tunnel scavati nel terreno.
E’
davvero molto sociale, tanto che ha due sue particolarità rilevanti ai fini
della sopravvivenza, e della nostra storia.
1. Pattugliamento sociale visivo da
parte di sentinelle
2. Termoregolazione sociale per
aumentare la probabilità di superare l’inverno.
Sul primo
tema, osserviamo che quando si avvicina un predatore, la regola è fuggire. Come
per l’ermellino.
Ma la
marmotta paffuta e un po’ impacciata non è schizzatina e veloce come
l’ermellino, per cui per scappare in fretta, le marmotte hanno escogitato un
sistema molto efficace.
E’ un
sistema di classe, e non di supremazia del singolo.
Non c’e’
un nobiliare re ermellino che scappa nella sua tana più veloce possibile
lasciando indietro tutti gli altri. E questo già spiega perché’ la marmotta ci
piaccia subito di pancia.
La prima
marmotta che fiuta il pericolo dà l'allarme e in pochi secondi tutto il gruppo
si rifugia nella tana.
La
tecnica è semplice. La "sentinella", si perché’ il gruppo elegge delle sentinelle il
che già solo ci sembra “tanta roba”, si
alza ritta sulle zampe posteriori, nella posizione a candela, spalanca la bocca
ed emette un grido simile a un fischio, provocato dall'espulsione di aria
attraverso le corde vocali, che secondo gli studiosi è un vero linguaggio.
Non tutti
possono fare la sentinella : bisogna avere sensi aguzzi e prontezza di
riflesso, e così pur essendo la loro società una società di pari a pari, la
categoria della sentinella è tenuta in particolare considerazione.
La Gran
Maestra Sentinella, prima tra pari ma venerata per la sua veneranda età e
conseguente conoscenza che molti chiamano cultura, controlla che tutte le
esperienze fatte vengano tra tutti condivise in modo da diffondere questo
fattore di sopravvivenza : la cultura, appunto.
Fioriscono
racconti e leggende che vengono fischiati ogni sera alla luce della luna,
quando c’e’. E ricordàti nella memoria di bisbiglii a bassa voce, o sotto la
voce, quando la luna non c’e’.
E questi
servono a istruire, ma soprattutto ad affascinare, le giovani ermellotte
aspiranti sentinelle.
Va
inoltre precisato che le sentinelle devono essere giovani, perché’ più
resistenti alla fatica dell’immobile vigilanza e anche perché’ più reattive nei
loro giovani sensidai principi incorrotti. Ma come tutti i giovani, sono un po’
stuferelle. Ragione per cui molto si prodiga la Gran Maestra Sentinella per
tenere viva l’attenzione all’apprendimento delle giovani pulzelle, con continue
invenzioni e trovate codificate nelle tonalità e intensità dei fischi che
emette.
“Fischia,
che l’aquila ti passa” è il motto delle giovani ermellotte.
Inoltre, e’stato
evidenziato come la socialità della marmotta sia un elemento determinante per
la sopravvivenza anche in un altro senso.
Alcuni dati
dimostrano che i cuccioli hanno più possibilità di farcela quando vanno in
letargo con i genitori e con i fratelli maggiori. Quando invece nella tana
mancano il padre e la madre oppure è scomparso un genitore, nel 70% dei casi la
prole non supererà i rigori della stagione fredda.
Quella della
marmotta è, quindi, una termoregolazione sociale: più si è, più possibilità ci
sono di sopravvivere, soprattutto per i piccoli, che hanno dimensioni che non
permettono loro di accumulare un sufficiente strato di grasso prima dell'arrivo
del freddo e, per questo motivo, hanno bisogno di essere scaldati dagli adulti.
Questi ultimi, infatti, presentano una maggiore perdita di peso corporeo quando
all'interno della tana ci sono i nuovi nati dell'anno.
Le marmotte più
scienziate chiamano tutto ciò con la pomposa definizione di efficiente utilizzo
delle energie, o risorse, e relativa condivisione delle stesse. Ma quando lo
fanno, vengono spesso derise per il loro tecnicismo di casta dalle giovani
sentinelle, quasi che queste ultime agissero anche come sentinelle delle idee
distorte spesso gergalmente definite dal volgo ermellotto come fenomeni di
ideativa di idee del cazzo.
Un giorno
particolarmente fausto, come già dicemmo che si erano incontrati, per la strana
alchimia dell’amore, un ermellino e una marmotta si innamorarono, e convolarono
a nozze, transgenerali ma speciali, in un empito di transversale fratellanza
alpestre che speriamo arrivi presto oltre il loro contesto fino oltre Mestre in
ogni ambito non solo campestre affinche’ ministre assortite e illustri prevosti
celebrino giostre non più sinistre di mescolanza in fratellanza tra ogni
terrestre, e oltre.
Nascono
così 5 piccoli ibridini.
Sono i
primi 5 trans della razza del futuro della montagna.
Sono le
prime 5 ermellotte, che desiniamo femmine in onore del genere femminile
medesimo, anche se più propriamente dovremmo chiamarle “ermellottrans”.
Va anche
notato che sempre per la grande alchimia della forza dell’amore, che alcuni
conoscevano già, le ermellottine delle prima pentade non sono nate sterili come
certi muli.
E così le
ermellotte crescono e si riproducono, in molti modi, e siccome la grande
alchimia dell’amore le ha dotate di “due
palle ed un uovo cosi”, letteralmente intendendoli portatori di geni, nell’arco
di poche generazioni di mamme portatrici, vale a dire mammifere e non
portatori, la montagna è piena di ermellotte.
Ermellini
e marmotte sono del tutto scomparsi, fusi nella nuova razza trans,
oggettivamente superiore.
Le
ermellotte, infatti e naturalmente, assommano caratteristiche genetiche dei due
ceppi originari le quali si sono assemblate in ulteriori combinazioni, come è
normale che capiti ai sistemi adattivi complessi come quelli dei geni. A volte,
purtoppo, anche a quelli dei cretini.
Possono
andare in letargo, ma se hanno da fare anche no, e restano al lavoro.
Sono
erbivore o roditrici e nel rispetto dell’equilibrio dell’ecosistema hanno
stabilito per legge di vietare l’allevamento di animali a fini cibatori. A dar
loro da mangiare ci pensa il dopo inverno, che da loro funziona in quel modo in
generale e non da generale.
Sono
grandi e paffute, ma ermellineamente muscolate in modo da risultare veloci e agili.
Cambiano
la pelliccia, ma solo la propria, in modo da potersi mimetizzare sia in inverno
che in estate, come facevano gli ermellini.
Vivono in
grandi colonie, perché’ l’ermellino si era stufato di stare da solo. E la
marmotta, che è gentile di indole, forse proprio perché’ erbivora, lo ha
accolto volentieri nei suoi tunnel che sono più comodi e spaziosi e dove c’e’ posto per tutti.
Come è
strana la natura: chi vive in grandi assembramenti nutrendosi di ciò che viene
rinnovabilmente offerto dalla terra è sempre disponibile ad accogliere qualcun
altro. Chi vive nel suo castello dorato, l’intruso se lo mangia.
Ma
l’ermellino nella sua ibridazione si è erbivorizzato, e beneficia così anche dell’energia termica
delle marmotte, smettendo di fottersi dal freddo tutto solo nel suo buchetto da
reuccio.
In cambio
l’ermellino conferisce alcune sue caratteristiche determinanti per lo sviluppo
successivo, della storia e della colonia.
Con
queste, le ermellotte hanno soprattutto assemblato un sistema di difesa passiva
ultra sofisticato, che anche in aggiunta alla mimetizzabilita’ della pelliccia
bicolore, le ha rese specie dominante nel panorama di quei costoni di montagna
dove regnano oramai indisturbate.
Assommando
la capoccetta periscopio a “pop-up” dell’ermellino e la sua particolare
ricettività sensoriale, tipica del predatore solingo, con il sistema di
comunicazione in interconnessione tramite l’utilizzo di sentinelle fischianti
della marmotta, intere colonie si difendono egregiamente in particolare dalle
aquile la cui vita è diventata molto più dura.
La
particolare caratteristica ereditata dall’ermellino, testimoniata dal tipico
“pop-uppare schizzato”, e ritorno, dall’imboccatura della loro tana,li rende in
effetti animali che, se ci mettiamo al posto dell’aquila, possiamo definire
binari. Ora ci sono e ora no. Ma tutto molto, molto velocemente, come in una
metafora di processione che incede al passo di carica della sua ultima
generazione.
Al tempo
stesso la “fischianza” già tipica della marmotta, li rende animali in
interconnessione attivabili a comando: basta la prima sentinella che dia il
fischio, e tutte le ermellotte corrono ai loro posti di combattimento, seppure
passivo. Vale a dire che si rendono privative del loro essere mangiabili,
andando a nascondersi.
In tal
senso sono animali non violenti, di probabile reincarnata genetica gandhiana
memoria. Onore al merito, deve essere questo il motivo per cui conferirono a
Gandhi medesimo l’appellativo, e già non titolo inesistente nella società di
normali pari a pari, di Grande Ermellotta, pur con gran sollazzo del mahatma
stesso che aveva sempre sognato di vivere al fresco di montagna.
L’ermellotta
è binaria anche nel vello non solo nel pop-up della capoccia. Il che potrebbe
forse sembrare fenomeno direttamente correlato al bisogno di pendolare
nervosamente e continuamente fra gli estremi della tana che ne determini una
pervasiva alternanza nell’altalenanza di ogni cosa che fanno.
Essendosi
adattati a vivere in un ambiente che dire ostile sarebbe eufemistico, senza
voler essere blasfemo seppur forse epifanico, in primo luogo per la presenza di
grandi volatili predatori, aquiloni nel cielo i quali epifani lo sono per
natura, le ermellotte quando c’e’ neve sono bianche e quando c’e’ prato, direte
voi, sono verdi.
Ecco un
errore nella vostra capacità di programmazione genetica, o forse non siete mai
stati in certe zone di alta montagna dove quando c’e’ prato il prato c’e’ solo
a chiazze, piccole eruzioni verdi tra terra e rocce sparse qua e la. E visto da
lontano è spesso più marroncino che verde.
Quindi,
quando c’e’ prato le ermellotte sono marroni, perfettamente adattate alla
distribuzione della loro probabilità di sopravvivenza.
In un
particolare momento dell’anno come pure nel suo reciproco, nel momento in cui
si sciolgono le nevi e le chiazze di prato sono ancora solo un’idea nei grandi
cicli della vita, l’ermellino diventa pezzato come un cavallo mustang, il
cavallo meticcio degli indiani del west, che derivato dagli incroci degli
antichi cavalli spagnoli, divenne il re della prateria un po’ marrone e un po’
bianco lui mismo. Ma lui a proposito.
L’ermellotta
sta facendo la muta, la quale come noto non è un meccanismo on-off, ma
piuttosto un processo di flusso graduale. Quindi l’ermellotta può apparire pezzata, appunto.
Più
precisamente, non tutti gli ermellini sono perfettamente sincroni rispetto al
grande ciclo della vita, ragion per cui può darsi che cambino colore al momento
sbagliato.
In tale
caso vengono, giustamente, detti asincroni.
Per
momento sbagliato intendiamo sbagliato rispetto a vari distinti fattori.
Troppo
tardi rispetto alle nevi che si sciolgono, il che li lascia nudi nel loro bianco
sulle chiazze di prato e di terra e di rocce.
Troppo
presto, anche per effetto del clima che rende brusco e discontinuo il passaggio
da inverno a primavera, per cui diventano marroni quando c’e’ ancora il bianco
della neve sul quale spiccano come polpette.
Oppure
con momento sbagliato intendiamo sbagliato perché’ asincroni un po’stonatelli
rispetto al dovere evitare le rotte
delle abitudini delle aquile, che cacciano di preferenza in certi orari
ed in certe larghe tracce dalle traiettorie tipicamente circolari, che
sarebbero quindi teoricamente e praticamente riconoscibili. Il che rende questa
ermellotta asincrona una sorta di minus habens della sua specie.
O più
semplicemente ancora, il momento in cui muta è sbagliato perché’ nell’ordine
naturale delle cose così deve essere, e ciò che è sbagliato per qualcuno a
volte non lo è per qualcun altro.
Ecco,
tutto questo per dire che l’asincronia di quell’ermellotta non è una colpa ma è
un dato di fatto.
Come è un
dato di fatto sociale, che finche’ si scherza uno può essere asincrono quanto
gli pare, ma quando c’e’ da fare qualcosa di importante l’asincronia diventa
fastidiosa e dannosa in particolare perché’ determina grandi sprechi di energia
volti a cercare di tenere a tempo il soggetto.
E’ quindi
pure un dato di fatto che la colonia di ermellotte, per un qualche riflesso
condizionato, o in, scappa al sibilo del segnale di allarme, lasciando il
povero asincrono a crogiolarsi nella sua ignoranza.
L’ermellotta
pezzata, o in senso reale o in senso metaforico in quanto alternanza di
comportamenti distonici rispetto alla partita a scacchi tra i ritmi della
terra, del disgelo o delle prime nevi, a quel punto non si può salvare.
E anzi,
deve essere sacrificata con il duplice obiettivo di rinforzare la genetica
della colonia, in questo caso per selezione naturale, e al tempo stesso nutrire
la specie delle aquile la quale può così continuare a svolgere il suo ruolo di
selettore genetico.
E ora
trasliamo il racconto su di un altro piano di realtà o punto di vista. Iniziamo
a raccontare la nostra vicenda dal punto di vista di un’aquila un po’ speciale,
che ha la particolare prerogativa di essere astigmatica.
Noterete
subito che citiamo con reverenza il termine astigmatico, che normalmente viene
inteso come una tara. E’ perché’ siamo su un altro piano di realtà.
La nostra
aquila, se da lontano ci vede come un’aquila, e se riesce addirittura a fissare
il sole, da vicino non ci vede un acca. Non distingue tra ermellotta ed
ermellotta, ne le interessano granche’ i dettagli della sua preda, una volta
che si è lanciata in picchiata al subconscio grido di “bianca o maròn, purche’
me magni il polpettòn””.
L’unica
cosa che la attiva è l’asincronia.
In tal
senso l’aquila non nutre pregiudizio nei riguardi di tutto ciò che la sfama,
non ha stigma.
E ha
sviluppato l’abilità del riconoscerlo in una forma univoca, che è proprio
l’asincronia.
Una
mattina l’aquila, la nostra aquila paradigmatica, si svegliò di buon’ora e
decise di fare una volatina interlocutoria per sgranchirsi le penne al primo
schiarore di tutte le idee. In fondo alla valle vide un uomo solitario che
arrancava per la salita, incurvato sotto il suo zaino arancione.
L’aquila
avvertì una strana vibrazione nella aurale sua terra di mezzo e capì che doveva
andare più vicino.
Presagendo
qualcosa di insolito e degno di nota, se non armonìa, svegliò anche sua figlia
che, di malumore, la seguì.
Con
sorpresa le aquile captarono i pensieri dell’umano che stava salendo nella
speranza di incontrare il suonatore
di montagne, noto per le sue rivelazioni in quota. Doveva chiedergli dove
trovare una certa Renata. Pareva fosse questione di vita o di morte.
Le aquile
conoscevano bene il suonatore di montagne perché’ le dilettava spesso con una
musica contornata da suoni che, seppure non ascoltabili dall’orecchio umano,
echeggiavano per tutta la vallata.
E così
volteggiarono fin quasi sulla testa dell’uomo per fargli sapere che lo potevano
aiutare.
L’uomo le
percepì d’improvviso come ombre nella luce del sole e iniziò a pensare a che
cosa somigliasse quella montagna.
All’improvviso
le aquile pensarono a qualcosa che in qualche mondo lontano doveva essere
attinente, e l’uomo capì che una di loro era Renata.
Alzò lo
sguardo e si chiese, però, chi delle due fosse Renata.
Madre e
figlia sembravano gemelle come un ritornello.
Il lui
aveva un urgente e imprescindibile bisogno di parlarle, alla Renata, perché’
aveva avuto una visione di una montagna, che molto assomigliava a quella
gemella su cui erano adesso, in cui appariva questa che doveva essere la
sciamana, di nome Renata.
L’aquila
pensò : “io mi chiamo Renata ma non sono una sciamana. Sono solo un’aquila.”
E l’uomo
pensò : “ecco, adesso ho capito. Questa montagna ha tanto la forma di una
porzione di cervello”.
Ed in
effetti quella lunga prateria contorta di rocce grigiastre inframmezzate solo a
tratti da piccoli lampi di neve, terra e prato, aveva un non so che di
cervellesco, se non cervellotico. Erano tutti i buchi da cui spuntavano le
teste delle ermellotte in intermittenza, e pure in sequenza ruotandosi
nell’autoemergenza, che sembravano tanti neuroni, generatori di sinapsi quando
i loro sguardi si incrociavano.
D’improvviso
un fischio si levò nell’aria e centinaia di testoline prima invisibili si
girarono nella stessa direzione all’unisona sincronia attivata dal fischio, per
poi capriolare immediatamente dentro al loro buco e scomparire alla vista.
Un’ermellotta recettore aveva ricevuto uno stimolo visivo e aveva prontamente
dato un allarme sonoro che come un comando di imprinting aveva generato un
comportamento di massa che possiamo definire, empiricamente se non scientificamente, un “fuggi-fuggi generale”.
L’uomo
restò sbalordito, ma non fece in tempo a sbalordirsi che vide l’aquila partire
in picchiata alla volta di quello che per l’occhio dell’uomo era un mare di
nulla.
Più
l’aquila accelerava, più l’uomo si concentrava per capire dove stesse puntando,
finche’ l’uomo notò un neurone asincrono. Un ‘ermellotta pezzata stava beata
immobile al sole, del tutto ignara della rapace sua prossima fine di vita.
L’uomo
allora capì.
Se la
montagna è un cervello pieno di neuroni in ebollizione in piccole eruzioni
fuori dalle tane, allora il neurone asincrono è un neurone malato che tutto
chiuso su se stesso non dialoga con gli altri, o dialoga male con un altro
asincrono, e genera malsane interruzioni ideative, come strade senza uscita,
che normalmente riconosciamo anche come idee del cazzo. Nello specifico una
idea di privilegio o supremazia potrebbe ben rappresentare il concetto e, con
un piccolo esercizio di proiezione nei panni dell’ermellotta, apparirà a tutti
evidente con chiarezza che starsene spaparanzati al solo in certe occasioni è
davvero un’idea del cazzo.
Ecco
allora che l’aquila, che deve necessariamente essere un aquila astigmatica
perché’ il cibo è cibo senza distinzione di colore, svolge la sua funzione di
inibitore e, senza pregiudizio alcuno, impedisce all’ermellotta stonata, o
meglio asincronizzata, di riprodursi indiscriminata.
L’uomo
restò ancora più sbalordito quando capì che l’aquila era stata effettivamente
sciamana, ma in uno sciamanesimo di prassi, seppur non di maniera, evidenziato
nella verità di quei metodi di sopravvivenza montana usati da tante vite.
Anche se
non ne conosceva ancora il nome, l’uomo era quindi quasi certo che l’aquila
fosse davvero Renata.
Mentre
l’aquila si divorava la preda, l’uomo si accinse a tornare verso casa oramai
certo di una verità.
Se voglio
evitare la proliferazione delle idee del cazzo, meglio stroncarle sul nascere
con due principali opzioni metodologiche di base: l’asporto o l’incapsulo.
S’immaginò
come in una partita di backgammon. Ma solo perché’ non sapeva giocare a
scacchi. “E’ questo il campo dove anche le aquile giocano a backgammon”, si
disse.
E’ tutta
una questione di bianchi e di neri, che nel nostro specifico si camuffano di
marrone. Quando l’aquila vede un neurone asincrono, di colore solitario e
opposto a quello che dovrebbe avere, ella sa implicita che è la sua missione
quella di asportarlo sul nascere per poi scioglierlo dentro alla sua pancia. Se
lo mangia, proprio come si dice di una pedina di backgammon.
E questo
era l’asporto. L’altra tecnica fondamentale è l’incapsulo, riconducibile invece
al gioco degli scacchi, che però non conosciamo a sufficienza per poterne
disquisire.
Ma
possiamo associare l’idea, la nostra, al concetto di: “circondiamola!”o
“svergognamola!”. Intendendo con ciò l’idea altra, quella del cazzo.
L’aquila
allora ribalta un tressessanta e in un gioco di quadriglia diventa sentinella
come l’ermellotta.
E’ la
sentinella dei pensieri alla quale la sua pancia fischia quel comando: “blocca quella
sinapsi, spegni quel diodo…che se magna!”
Questo è
il gran segreto della forma, non in
quanto condizione fisica ma in quanto schema ricorrente, ma bisogna scendere
nell’essenza e non fermarsi alla forma in superficie perché’ di formalismi non
ci si nutre.
L’aquila,
già in un principio di pesantezza digestiva, pensò: “se a questo tipo qua tutto
questo gli sembra un cervello ecco perché’ a me sembrava un computer. Ecco
perché’ continuavo a pensare alle ermellotte “binarie”. Certo, mi farebbe
comodo se qualcuno mi spiegasse cosa cazzo è un computer. Ma non sulla
digestione.”
Intanto in
un dove altro ma non nel quando, un neurologista, studioso della logistica di
vagoni di neuroscensazioni, dislocava forme di container ricolmi di pensieri
nel porto a forma di canale, dove s’erano approdati a riposare, e li spostava
continuamente perché’ aveva finalmente capito che il grande gioco dei pensieri,
anche se lo potessi fare, non lo devi mai fermare. Se lo fai tutto diventa
asincrono, e allora : “occhio all’a qui la”. Se lo avesse fatto, inoltre,
sarebbe rimasto disoccupato clochard come un farmaco retard, scaduto in quella
grande marina di depot.
E quindi,
i pensieri, meglio farli girare in un continuo andirivieni tra banchina e
banchina che tracciasse traiettorie traccianti, forme, schemi,utili prima o poi
o li o altrove.
Anche se
non sapeva bene a cosa servisse il tutto. E nemmeno cosa volesse dire.
Vide una
luce. Era la luce del sole dentro all’occhio di Renata che disse a lorpensieri
: “ma se la montagna va al cervello e il cervello per voi è un computer, allora
la montagna è nella testa e la testa è il mio computer.”
Brutte
neuroscensazioni attraversarono il neurologista che si disse: “meglio fare
qualche esercizio quiorante e spostare qualche container un po’ qua e un po’
la. O da lì a là e bla bla”.
“Anche se
a prima vista sembra solo una svista utile quanto un antennista animista un
poco affarista ma non altruista”.
La lunga chiosa epilogica
Un
giorno, all’alba della fine del tempo di quel tempo, la Gran Maestra Ermellotta
e l’aquila Renata sono sedute e appollaiate sulla cengia più alta della
montagna ermellotta.
La Gran
Maestra Ermellotta si chiama così perché’ è la Prima Veneranda Saggia Maestra
Sentinella.
L’aquila
si chiama Renata, perché’ si narra che fosse la reincarnazione di se stessa,
anima eterna in corpo di uccello mortale.
Quello
era il primo inverno che con il disgelo non aveva visto nemmeno un ermellotta
asincrona.
Dopo anni
e anni di accurata, seppur implicita, selezione, la malattia dell’asincronicità
era stata sconfitta.
L’evento
fu festeggiato per giorni e giorni da tutti gli abitanti della oramai smisurata
colonia.
Le
ermellotte, se ricordate, sono interconnesse e quando una di loro soffre,
soffrono anche le altre.
Anche se
alcuni ermellotti scienziati ritengono che la sofferenza del singolo venga
ridistribuita in piccole dosi tra tutti gli altri, come con l’energia e le
risorse in genere, rimane il fatto che una tristezza di un singolo diventa,
anche giustamente, tristezza di tutti.
Fortunatamente
per loro vale anche all’inverso, con l’allegria.
Quindi la
fine dell’era del “sacrificio dell’asincrono”, profetizzata dalle visioni di
tanti sogni rivelatisi in ordine sparso nella colonia sin dalla notte dei tempi
e poi tramandata di generazione in generazione, era un evento da tanto atteso
da tutti, che aspettavano di non dovere più soffrire per quel pari tra i pari,
seppur forse un po’ meno alla pari.
L’animo
nobile della Gran Maestra non pote’ non pensare alla povera aquila Renata.
“Come farà
a mangiare ? Come riuscirà a vivere ?”
E perciò
l’aveva invitata a quell’appuntamento galante con tanto di magnificenza di
vista dall’alto sul loro mondo intero.
Non aveva
pensato che fosse un rischio, sia perché’ i suoi peli a metà di ermellino non percepivano
vibrazioni negative e sia perché’ il suo animo nobile era anche per natura
gentile, e l’animo puro va sempre ascoltato e assecondato.
L’aquila
Renata si stagliava immobile nel cielo, visibile da qualsiasi punto delle
vallate circostanti.
E la Gran
Maestra che le stava acquattata di fianco, disse : “E adesso” ?
“L’adesso
non è più con fessone circonflesso”.
L’aquila
capì d’essere stata eccessiva, nel suo opposto d’iperbolico divenuto
estremistadi sintesi.
“Non c’e’
nessun adesso”. “La metamorfosi è terminata. L’ermellotta è un essere
perfetta”.
“E io non
ho più fame. Mi nutrirò di aria, di acqua e di luce, come fanno le piante nella
loro perfezione di alchimisti naturali”.
“Da ora
in avanti io non sono più aquila più di quanto tu non sia più marmotta o
ermellino. Questa era la mia ultima reincarnazione. Il mio compito era fare in
modo che l’ermellotta regnasse indisturbata e pacifica su questa porzione di
creato”.
“Questo è
quel regno dei peli che vi cantate, o meglio fischiate, fin dalla notte dei
tempi.”
E mentre
mormorava queste ultime parole si alzò per il suo ultimo, maestoso, volo a
cavallo di un raggio di luce imbrigliato nel suo occhio a qui li no, generando
infinti versi persi al vento di tutti i pensieri.
“L’Io non
serve più. Io non servo più” furono le sue ultime parole, mentre la sua figura
rimpiccioliva sempre di più fino a trasformarsi in un ultimo impercettibile
battito d’ali di una farfalla che si sciolse nel tutto.
La Gran
Maestra si rammaricò. Pensò tra se e se che non aveva fatto in tempo a fare una
ultima domanda all’aquila.
Era
curiosa fino da piccola, nel suo desiderio di conoscenza geneticamente e
sanamente asservito alla sopravvivenza, di sapere quanti asincroni che aveva
mangiato fossero maschi e quante femmine.
Si avviò
cionderellando verso casa, fino a che ad un tratto sentì una voce sussurarle :
“maschi, maschi, che ti aspettavi? Era il gene d’ermellino, maschio nel nome e
nei fatti, che faceva bordellino. Voi marmotte andavate già abbastanza bene
come prima”.
La Gran
Maestra si girò, ma non c’era nessuno.
Un filo
d’erba le sorrise danzando con i suoi simili alle onde del vento.
Ma lei
non lo vide.
Un aquila
dall’impianto visivo qui e li no, vista detta asvista, all’altro capo dello
stesso intorcinato filo da seguire per districarsi in quel magma di versi che
alcuni ritennero universi in un empito di istinto di appropriazione indebita
multiversale, pensò: “ beh, non è che tutte le femmine rifulgano splendore di
intelletto. Mi sa che c’entra la normale della distribuzione del cretinismo,
che a quanto pare è assolutamente democratica oltre che astigmatica”. “Proprio
come me.”
Appena
compiuta la giravolta in quel pensiero, tutte le ermellotte della montagna
sentirono un brivido percorrere le loro pellicce, con il ciocche’ chi vibrò di
piacere e chi di vergogna all’idea che avevano o non avevano mai riconosciuto
l’aquila per quello che era.
La Gran
Maestra, assorta nelle nuvole dei pensieri, non si accorse di nulla.
Mentre
tornava verso la tana, vide invece un uomo in lontananza con un zaino arancione
che arrancava pesantemente e dolorosamente in discesa, come prima in salita, e
senza sapere perché’ si disse tra se e se: “ah questi maschi, proprio vero che
stanno sempre a fare le prime donne. Dove si crede di andare quello li che si
vede da qui che non ce la fa più” .
L’uomo
scendeva per la montagna pieno di ammirazione per quello che la colonia di
ermellotte gli aveva insegnato.
D’un
tratto si chiese : “ma queste ermellotte saranno maschie, femmine o cosa? Come
si riprodurranno? Non saranno mica trans?”
L’uomo
non conosceva la leggenda del Primo Inammoramento, quello da cui nacquero i
primi 5 ibridini, ragione per la quale non avvertì la profonda verità della sua
preguntiva riflessione.
In
lontananza un’ermellotta sentinella non pote’ trattenere le risate che di, e
da, norma fuoriescono in forma di fischiettate intermittenti e si mise a
ridere, nel vedere tutto quello stridere nell’incedere del mondo, al pensiero
di “certo che siam tutti trams”, noto motivetto zuvolante fin dai tempi delle
prime melodie allora ancora non mutate in sincronie.
L’aquila
da dentro il suo filo d’erba pensò : che gabbia di matti.
E
finalmente tutto tacque in un fragoroso silenzio di pensieri di alte vette
montane.
In quel
mentre uno scoiattolo che cercava in ogni filo d’erba l’altra via per stabilire
un nesso permanente per la mente tra finzione e realtà, sorvegliava furtivo di
sottecchi un neuroscensato, orgoglioso della scoperta che la montagna computava
nella testa di qualcuno, bevendo calvados in sua ignara compagnia.
“Diffida
dei tecnici”, pensava. “Si innamorano della tecnica e perdono di vista
l’insieme del tutto”.
Il filo
d’erba gli rispose stigmatico: “Si, è così”.
Si
guardarono senza bisogno di sguardi e mormorarono all’unisono del silenzio:
“tutto nacque da un battito d’ali di una farfalla, perso in quello stesso vuoto
dove io cesso il mio adesso.
“Nell’adesso
che non c’e’ più tu sarai nella chiarezza.”
“Non
cercare la coscienza, troverai solo errori nell’ammasso d’energia.”
“Respira
la coscienza nel fremito del vento di tutti i pensieri, e volerai tra i battiti
delle sue ali.”
E
conclusero, parafrasando un certo raro tutti in coro :
“anche in montagna la vita è un grande fiume”.
“Mo’ si”.
Nessun commento:
Posta un commento